Beatriz Colomina e Mark Wigley: «Il Pianeta? Un grande intestino da abitare»

The Other Side of the Hill. Foto Alessandro Paderni

Sorvolare la città con i suoi paesaggi architettonici, attraversare strade e ponti per poi tornare alle viscere del corpo umano e riemergere con una nuova idea di abitare: con We the Bacteria alla XXIV Triennale di Milano e The other Side of the Hill alla 19. Biennale di Architettura di Venezia, Beatriz Colomina e Mark Wigley mettono in scena la storia dell’umanità salvata dai batteri. E segnano una svolta paradigmatica nel racconto dell’architettura, dell’antropocentrismo e della crisi climatica.

Docente ordinario all’Università di Princeton, a capo del corso di studi Media and Modernity del medesimo ateneo, lei, autore e architetto, ex Preside della Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University, lui, la loro è una ricerca epocale e, come sostenuto anche da Hans Ulrich Obrist, ciò che la comunità progettuale attende dalla pandemia: ovvero una riflessione laica post-Covid che cambia il nostro modo di stare su questo Pianeta. Senza allarmismi, ma con intuito sano e creativo pragmatismo.

«Incalzati anche da Stefano Boeri, per meglio stanare le disuguaglianze», raccontano Beatriz e Marc, raggiunti in call a New York, «abbiamo scelto di osservare il rapporto tra architettura e salute da un punto di vista più laterale», quindi non antropocentrico.

Beatriz Colomina e Mark Wigley: «Il Pianeta? Un grande intestino da abitare»
The Other Side of the Hill. Foto Alessandro Paderni

Le due mostre, a Milano e Venezia, sono complementari ma profondamente diverse: la prima — un corpo, dilatato e necessario, di dati, connessioni, casi studio e mondi in divenire da toccare con mano —, è propedeutica alla visione della seconda: un’idea di focolare che, con il contributo della microbiologa Roberta Coulter e del fisico Geoffrey West, punta sull’autorialità di Patricia Urquiola per trasportarci in un futuro apparentemente post apocalittico.

Ne è nato un vocabolario tridimensionale che, attraverso i progetti selezionati in mostra (dal Giardino Batterico a Microbial Migration di Philippe Rahm Architects, da Terra Petra di Paulo Tavares, a DeepForest di ecoLogicStdio, sino a includere, poco prima di lasciarsi l’installazione alle spalle, Microbioma di un Bacio di Martin Oeggerli), prova a riabilitare il significato tradito di alcune parole comuni: quelle alle quali, nel tempo, e per ignoranza, sono stati attribuiti significati scomodi.

Health. «Salute, parola che rimanda senza timore al mondo scientifico del microbiota e dei microbioma», dove per microbiota si intende la comunità di microrganismi che vive in un ambiente, come l’intestino umano, e per microbioma, il loro patrimonio genetico. «Molte delle malattie del nostro tempo, inclusa la depressione, i disturbi autoimmuni, l’autismo all’Alzheimer e alcune forme di cancro, sono intesi come una conseguenza della diminuzione della diversità dei batteri nelle nostre viscere». Premessa necessaria alla comprensione.

Beatriz Colomina e Mark Wigley: «Il Pianeta? Un grande intestino da abitare»
Foto Max Zambelli

Bowel. «Intestino, luogo di imbarazzo, di odori, rumori, sostanze chimiche: un organo ritenuto argomento di conversazione poco sexy». È all’ingresso di We the Bacteria, che troviamo tatuati a pavimento due numeri: 32, i metri quadrati di intestino umano; 20 i metri quadrati di spazio necessari a ogni uomo per sopravvivere. «Partiamo da qualche considerazione di tipo anatomico», spiegano. «In un’epoca come la nostra, ossessionata dal corpo, è bene ricordarsi che noi siamo intestino: il feto umano altro non è che un intestino di 2,5 metri di lunghezza in attesa che il corpo cresca per riaggomitolarcisi dentro». Volendolo poi spacchettare, questo groviglio, popolato da oltre 100 trilioni di forme batteriche, è in grado di stendersi su una superficie di 32 mq: 12 in più rispetto all’unità minima di sopravvivenza indicata dal manuale dell’architetto. Prendere le distanze da un luogo che ci appartiene e al quale apparteniamo per natura, averne paura, è una contraddizione in termini: vuol dire adottare un punto di vista ‘antibiotico’ che investe tutte le sfere dell’agire umano. Inclusa l’architettura.

Fear. «Il Ventesimo secolo è per lo più antibatterico. Lo è l’architettura», la paura delle malattie di origine batterica come la tubercolosi, per esempio, impose di attrezzare gli edifici con grandi finestre e terrazze per favorire la ventilazione e il contatto diretto con il sole. «Lo è la medicina che, abusando della somministrazione di antibiotici, ha trasformato i batteri in veri mostri», microrganismi aggressivi e refrattari a qualunque farmaco. Negli ospedali tanto quanto in altri luoghi, incluso l’intestino. «Lo stato di salute del microbioma è un indicatore affidabile di disuguaglianze: strettamente connesso alla qualità della dieta alimentare, è in equilibrio tra coloro che accedono a un’alimentazione ricca e sana, è precario in chi dispone di mezzi limitati», in  Africa e nei paesi in via di sviluppo, per esempio, dove per altro si sceglie di somministrare con più facilità farmaci antinfettivi.

Beatriz Colomina e Mark Wigley: «Il Pianeta? Un grande intestino da abitare»
We the Bacteria. Foto Alessandro Saletta e Agnese Bedini – DSL Studio

Dirtiness. «L’architettura come fortino che protegge l’uomo dalle intemperie, dagli animali, dagli insetti, dai batteri. Dalle persone che non ci piacciono», tenere a distanza ciò che non conosciamo perché altro da noi è un atteggiamento poco sano, alimenta una psicosi politicamente manipolabile. «I batteri sono una sorta di modello utile a impostare un nuovo modo di convivere e di progettare», includere, accogliere, fare spazio a ciò che già convive dentro di noi. Dei cento trilioni di microbi che ci abitano, alcuni sono pericolosi, ma altri sono necessari al mantenimento di una buona salute. «Stiamo diventando sempre più fragili per salvarci, dobbiamo pensare a una dimensione dell’abitare dove entra più acqua, ma anche più sporco, più piante e più insetti, più persone di diversa origine ed età», e anche più nuove idee.

Diversity. «Convivere con una comunità batterica, vuol dire rendere i luoghi dell’abitare, dalle case agli ospedali, finalmente sicuri: dobbiamo abituarci a fare entrare il mondo, inteso come ciò che è altro da noi, diverso, nella nostra casa e non tenerlo fuori dalla porta». Nella dimensione batterica, il significato di ‘clean’ è complementare a quello di ‘dirty’, perché indica una sorta di idea politica che separa nutrendo la polarizzazione tra sporco e pulito, giusto e sbagliato, sano e malsano.

“I prodotti per l’igiene della casa”, come allestito in mostra, “sono un arsenale di armi che uccidono i batteri, senza distinzione alcuna”, è il momento di pensare a un’architettura più in sintonia con il nostro intestino.

God save the climate change. «Una provocazione, ma fino a un certo punto. Credo che quello che abbiamo cercato di fare a Venezia», chiude Colomina, “è di mettere in discussione l’assunto che il cambiamento climatico sia l’unica questione urgente: è incredibilmente importante, ma è solo un sintomo. Il cambiamento climatico non sta distruggendo il Pianeta, ma sta rendendo il Pianeta un luogo ostile agli esseri umani che non hanno risorse». Le previsioni parlano di città abbandonate, economie al collasso, criminalità, disastri di ogni tipo: «Noi

Beatriz Colomina e Mark Wigley: «Il Pianeta? Un grande intestino da abitare»

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, perché, a differenza di noi umani, “sono esperti di crescita esponenziale e abilissimi nell’autoregolarsi. Lo spazio della caverna costruito alle Corderie dell’Arsenale, è la nostra via: la possibilità di comprendere cosa potrebbe significare convivere con i batteri, consapevoli di poter imparare da loro».

Non è una fine, ma una rinascita che mette a sistema la salute di tutti, dell’uomo e dei microbi, delle piante e degli animali. Perché in questo grande intestino che è il Pianeta, siamo tutti connessi.

Beatriz Colomina e Mark Wigley: «Il Pianeta? Un grande intestino da abitare»
We the Bacteria. Foto Alessandro Saletta e Agnese Bedini – DSL Studio
Living ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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