Alex Chinneck: «Mi considero un turista dell’arte»

L’artista britannico Alex Chinneck. Foto Charles Emerson, courtesy of the artist

L’artista inglese Alex Chinneck si diverte a sfidare la gravità con lampioni annodati, facciate che si piegano, edifici tagliati a metà. Come la casa aperta con la zip realizzata a Milano durante la Design Week 2019, diventata immediatamente virale sui social, ma anche il mercato di Covent Garden a Londra che ha tagliato in due e sollevato da terra nel 2014, mandando il pubblico in visibilio, o lo stravagante battello installato a Sheffield in omaggio al passato industriale della città.

Artefice dei movimenti impossibili, stravolge il contesto a colpi di distorsioni, nodi e spirali. Il suo tocco illusionista è pop, sempre sorprendente e mai banale. Ammiratore di Anselm Kiefer e Antony Gormley, due artisti in antitesi che invadono lo spazio con uguale padronanza, si pone in qualche modo nel mezzo, in equilibrio sulla tensione che crea con ogni opera o installazione, realizzate unendo le discipline dell’arte, dell’architettura e dell’ingegneria. Monumentali per ambizione e impatto.

Siamo andati a trovarlo nel suo cottage immerso nella campagna inglese per farci raccontare come pensa e realizza le sue opere, da Take My Lightning but Don’t Steal My Thunder (“Prendi il mio fulmine ma non rubare il mio tuono”), prima di una serie di magie, alla facciata di una tipica abitazione londinese che ha costruito con 7000 mattoni per poi piegarla come un’onda sinuosa per l’ultima Clerkenwell Design Week.

Mente aperta e piedi ben saldi a terra: ha l’ambizione di rimanere libero creativamente ma ama ribadire il suo pragmatismo. Il contesto in cui si è svolta questa intervista può aiutare a rendere l’idea: siamo nella sua casa-atelier, in un gruppo di edifici rurali di epoca medievale in un angolo di pace nel Kent, la moglie sta preparando un pranzo di famiglia, ci saranno ospiti, l’occasione è la festa di compleanno di uno dei tre figli. L’artista vuole andare fuori al sole; davanti al deck, solo campagna inglese a perdita d’occhio.

Lei è un artista complesso di difficile catalogazione, come la dobbiamo definire?

Io progetto opere d’arte. Mi interessano soprattutto materiali e processi anche se credo che l’atto creativo rappresenti solo il 5% di quello che faccio. Il resto è esecuzione, gestione, logistica, sviluppo pratico.

Chi sono i suoi riferimenti creativi?

Più che da altri artisti, mi lascio ispirare dal contesto. Mi sento caricato di una certa mia energia creativa. Mi piace maledettamente realizzare delle sculture, niente mi fa sentire più vivo. Devo dire che i primi lavori di Thomas Heatherwick suscitano in me ammirazione dal punto di vista architettonico, scultorei e sperimentali così come quelli iniziali di Frank Gehry.

Alex Chinneck: «Mi considero un turista dell’arte»
Alex Chinneck, Alphabetti Spaghetti, 2019. Foto Marc Wilmot, courtesy of the artist

Allora le chiedo, chi è il più bravo?

Anselm Kiefer è il vero re: ambizione totale, bellezza monumentale, libertà e magnetismo. Mega in tutto: nei concetti, nell’esecuzione e zero fuffa. Ho trovato profondamente bello e potente il documentario Anselm Kiefer: Remembering the Future (2014), niente mi ha esaltato di più. Non ci sono molti artisti che mi entusiasmano, peraltro nessuno in Inghilterra a parte forse solo Sir Antony Gormley, un tesoro nazionale, del quale apprezzo l’estetica minimale. Il suo Angel of the North è perfezione.

Sono molto critico e cinico nei confronti del mio lavoro. Concedo pochissimo spazio al compiacimento, all’auto celebrazione, all’ego, mi innervosisco all’idea di crogiolarmi e diventare pigro, quindi sterile. Sono alla ricerca costante del nuovo progetto da fare, rimanendo poco facile, rischioso e non ultra sofisticato. Raffinando il processo ma non il risultato.

Da dove inizia un’opera?

Odio le direttive e la funzionalità, che trovo vadano un po’ a scapito della libertà espressiva. Il contesto è tutto e sono bravo a fare in modo che le cose accadano a dispetto delle costrizioni, che siano dovute al budget o ad altri fattori. Nel mio studio sviluppiamo diverse idee per ogni progetto, che poi non necessariamente vengono realizzate. Negli anni si è formato un archivio di modelli con migliaia di file, che rappresenta la ricerca costante nello sviluppare un linguaggio visivo che non sia ripetitivo.

Alex Chinneck: «Mi considero un turista dell’arte»
Alex Chinneck, A Bullet From A Shooting Star, Londra 2015. Foto Chris Tubbs, courtesy of the artist

Qual è il suo pezzo più significativo?

First Kiss at Last Light, per il romanticismo intrinseco dell’abbraccio tra i due lampioni. Telling the Truth Through False Teeth ha un posto speciale nel mio cuore, lo considero vicino alla perfezione, se questa affermazione non risultasse arrogante. La singolarità di ogni singolo vetro che nell’insieme ha composto un’opera gigantesca è un mix di spettacolarità e delicatezza, talmente integrato nell’architettura che potrebbe anche passare inosservato.

In che modo pensa che le sue opere cambino la percezione dello spazio?

Creano disorientamento. Sono qualcosa di inaspettato che stimola il responso del pubblico, sia in positivo che in negativo. Penso all’intervento in Covent Garden o all’installazione in Tortona a Milano, una di quelle che mi ha gratificato maggiormente. Un’azione dirompente, che è poi quello che dovrebbe fare l’arte contemporanea. Mi viene in mente, per fare un esempio, il sole artificiale di Olafur Eliasson nella Turbine Hall della Tate Modern, forse il primo esempio di esperienza collettiva con l’arte.

Quello che realizza è immediatamente accessibile, con un’anima pop.

Specialmente quando fai arte pubblica è importante che le opere siano di immediata comprensione. Rifuggo sempre di più dagli elitarismi, e cerco di educare i miei figli in questo senso. L’arte e il suo mondo richiedono un grande sforzo, mi considero un turista in questo ambito. Ci sono in giro un sacco di opere deboli ammantate di pretenziosità e intellettualismi.

Da cosa sta alla larga?

Dai concetti senza significato, dalle cavolate. Tutto è cominciato intorno al 2000: quello è stato il momento preciso, il punto di svolta quando nell’arte le cose hanno cominciato a diventare più effimere, specialmente in quella inglese. Per diverse ragioni Londra ha perso un po’ della sua energia creativa a favore di altri posti, sia nel Regno Unito che in Europa, il che è un peccato. Certe realtà e zone avrebbero dovuto essere meglio tutelate per favorire il panorama artistico invece che sacrificarle alle dinamiche speculative e del profitto.

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