Sarà per via di quella luce pulviscolare che sembra avvolgerla di un velo sottile. O per via di quella sensazione scabra e diffusa, emotivamente impermanente, che ti aggancia ai suoi vuoti, ai suoi pieni, ma in Beirut e nella sua gente c’è qualcosa di sofisticatamente elegante e primordiale che non ti lascia scampo. Ti emoziona. Ti emoziona con le sue contraddizioni, con il fragore di partiture antiche che si schiantano sul presente, con il movimento urbano, continuo e sincopato, di litanie, di mani bambine che chiedono aiuto, di colpi sordi giocati allo Sporting Club. Ti emoziona con i suoi grovigli di cavi che si intrecciano nel cielo per aggrapparsi al nulla, e a facciate di edifici nuovi o appena bombardati. A pali innestati su marciapiedi sconclusionati come tronchi metropolitani, per portare energia, la poca che ancora esiste e resiste per sole tre ore al giorno. E che svela una bellezza che rivendica il suo palcoscenico.

«Per noi libanesi la bellezza ha molto a che vedere con il senso di comunità. Il nostro è un popolo che migra per poi tornare. Perché qui, in Libano, ci sentiamo protetti. Il nostro è un Paese sicuro perché il suo è un popolo che costruisce reti sociali dalle maglie molto resistenti», racconta Gregory Gatserelia, tentennando per l’emozione. Una dichiarazione che prova a squarciare la trama di luoghi comuni che dipingono un paesaggio dalle tinte a tratti opache. Architetto, designer, landscaper, insieme a Nour Najem e Guilaine Elias, per Najem Group & Co. (uno dei principali produttori di marmo e pietra in Libano) a fine settembre ha presentato Fragmenta: The Revival of Lost Forms, una collezione di un centinaio di pezzi in pietra di recupero. «Un lavoro nato circa un anno fa e completato insieme a una squadra di 50 creativi di tutto il mondo», ci spiega. «L’obiettivo è portarlo a fine novembre ad Abu Dhabi per Nomad», il progetto itinerante fondato e diretto da Nicolas Bellavance-Lecompte.
L’evento beritense è per noi europei anche l’opportunità di avvicinare l’evoluzione dell’autorialità di Gregory Gatserelia, progettista dal ‘french touch’, ma anche ’esploratore, viaggiatore del design’, come si legge in Gregory Gatserelia. The art of interiors, il libro curato da Federica Sala per Rizzoli (2024). «Da quando ho deciso di trasferire stabilmente vita e lavoro a Beirut, il mio modo di progettare», in passato più vicino alle atmosfere del funzionalismo e del minimalismo di Bahausiana memoria, «risuona dei ritmi, delle peculiarità e delle contraddizioni della mia città», quasi in allineamento cosmico. Victor Gastou, nel volume, tratteggia l’immagine di un avventuriero che, quando entra in una galleria, sembra aver scoperto i resti di una civiltà sconosciuta. Scrive: ’è con il suo occhio attento, di intenditore, che osserva e percepisce le forme. Esamina i pezzi alla ricerca di quei piccoli dettagli che la rendono un’opera’. Un’attitudine dunque, la sua, collaudata anche alla guida del progetto Fragmenta.
«Brandelli di decori classici, cumuli di scarti impolverati, frammenti di marmi colorati, bianco di Carrara e Giallo Pinocchio, Verde Lepanto e ancora Grigio Calamandine, Nero Marquina e Rosso Laguna: è muovendomi tra i blocchi giganteggianti delle pietre di Najem che mi sono imbattuto in questo immenso archivio di materiali spontanei. Capitelli, porzioni di colonne, piani levigati, cornici e fregi slabbrati sono parti di progetti nati perché pensati, realizzati con amore da mani sapienti. Meritano un riscatto», più che frammenti dunque sono portatori di un valore eterno. Da qui in poi è un dialogo tra curatore e proprietà: “Ne avete molti?” Si, in abbondanza. “Come li usate?” Per fare ghiaia. “Bene, sapete cosa possiamo fare, invece? Possiamo traghettare questi testimoni del tempo che fu dal Purgatorio al Paradiso, restituendo loro vita e voce”.

Ai designer Gregory ha chiesto di costruirsi il proprio abaco e di riflettere sul processo di trasformazione, che aveva come unico limite quello di realizzare opere costituite per il 70% da marmo e in collaborazione con gli ingegneri e gli artigiani del gruppo. Il risultato è una collezione eclettica che, mantenendo fede ai criteri di ‘minima trasformazione’, esplora le potenzialità della pietra sempre in dialogo con l’autorialità dei progettisti coinvolti.
Tra i progetti più interessanti, i tavoli di Samer Bou Rjeily e Roula Salamoun. Il primo, scultoreo, cesellato a mano con tecniche di intaglio tradizionalmente usate per il legno, è un altare contemporaneo la cui texture cattura la luce per restituire una bellezza quasi ancestrale. Il secondo, Asterite, è un arcipelago di incastri, nel quale ogni colonna-pianeta a geometria ottagonale, si àncora al piano per restituire metaforicamente l’allineamento delle costellazioni.

Ma anche la sofisticata ricognizione semantica di Agglomerati che con Pierre Castignola rifunzionalizza porzioni di cornici di camino in piani di appoggio, mensole e panche. La serie di arredi Spolia è senza infingimenti: ogni nuovo pezzo, pur declinando un linguaggio contemporaneo, è fiero di tagli, giunture e ricomposizioni, tracce della sua origine.

Così come il cinetismo di Serpent, il mobile che sfida la gravità del marmo: Ghaith & Jad entrano nelle pieghe del concetto frammento per spacchettarlo, aprirlo alla contemporaneità. Parti di mensole in marmo eritreo usate come fermalibri sono testimoni di una storia che fu, e al tempo stesso protagonisti di una nuova domesticità.

«Mi ha colpito molto l’aspetto educativo di questa operazione, emerso in maniera del tutto inaspettato», svela il curatore. «Il fatto che molti tra i giovani designer ai quali poco interessa del passato e che forse poco sanno o ricordano della storia antica, ne abbiamo riscoperto il fascino. Partendo proprio dai fondamentali: dal rispetto delle proporzioni, dei criteri compositivi e del dogma estetico. Se c’è un insegnamento da trarre è proprio il principio di conservazione: ri-usare, si, ma in modo diverso. Mantenendo».

Ecco allora le Bugie di Andrea Mancuso, lo stool Blush di Paola Sakr e la chaise longue Truth and Lies di Johanna Jonsson prendere forma in continuità con parti di antichi elementi scultorei.


Quella di Joy Herro invece è una scultura, un pezzo evocativo fatto di fiori e ruote dai colori vivaci che ci indicano la via per la felicità: «Il mio modo per fuggire lontano dalle tragedie del mondo», un’esplorazione che si allinea all’intensità creativa di Gregory. Lui, l’intrattenitore che usa il design come strumento di magia e che disegna spazi per aiutare le persone a sopravvivere alle sfide cui sono sottoposti. «I miei sono luoghi in cui musica e progetto sorprendono e sospendono le persone nell’incanto», dice. Così il design: il suo modo di prendersi cura dei libanesi.

Fragmenta è dunque molto più di un’esplorazione ai confini della creatività: «A livello concettuale è una sfida. Penso a Gaza, alla distruzione, alle macerie, a un futuro oggi negato», e vale la pena ricordare il pezzo di Alfred Tarazi, Happy Family, che non ha bisogno di spiegazioni. «La mia idea è di portare le macerie in mare», proprio là dove oggi è negato l’approdo, «per bonificare il territorio e regalare nuova terra ai gazawi», chiude Gregory Gatserelia. «Ci sarai un dopo, e sono sicuro rinasceremo insieme». C’è bellezza in questo pensiero. Un altro ‘frammento’, umano e perfetto.

L’articolo Dare voce ai frammenti con una collezione in marmo di recupero sembra essere il primo su Living.