Quando li ho incontrati per la prima volta, Emiliano Salci e Britt Moran non avevano ancora fondato Dimorestudio. Si parla più o meno di venticinque anni fa. Erano vicini di casa di un’amica, in un palazzo in zona Gambara a Milano. Avevamo trent’anni e vivevamo tutti in appartamenti in affitto, ma Emiliano e Britt avevano sistemato il loro con molta più ossessione – e bravura – di noi.
Sembrava un set cinematografico. L’appartamento dove si sono trasferiti subito dopo, in via Solferino, l’ho visto sulle pagine di una rivista. Da lì ho perso il conto dei loro traslochi e delle volte che Living ha pubblicato i loro lavori: appartamenti, alberghi, scenografie, arredi…
Questa nel quartiere di Porta Vittoria a Milano, al piano rialzato di un edificio dei primi Novecento, è la nuova casa di Emiliano. La definisce ‘un momento personale’, precisando che Britt continua a essere una presenza importante nella sua vita e nel suo lavoro.
Lo spazio l’ha catturato per la sua energia: «Apparteneva a uno scenografo del Teatro alla Scala. I dettagli come le porte, o certe finiture, portano probabilmente la sua impronta», spiega. «Mi ha colpito l’atmosfera sospesa. Era come se la casa contenesse una storia che volevo continuare a scrivere». Racconta che ci è voluto un anno per convincere il proprietario precedente a venderla. Due per completare i lavori.

Di interventi strutturali ne ha fatti pochi, ma determinanti. La vecchia cucina è diventata un piccolo bagno di servizio, con pareti arancioni, un lavello in porcellana nera e applique Venini degli anni Sessanta, mentre la camera sul cortile è stata trasformata in una cucina, ampia e luminosa («perché amo cucinare e volevo che fosse uno spazio vissuto»). Ha spostato di pochi centimetri un arco per allinearlo meglio alla nuova prospettiva e ha aperto un varco tra la sala da pranzo e il soggiorno per lasciare filtrare la luce.

«L’idea non era ‘rifare’ ma ‘rivelare’: togliere il superfluo, lasciare che la struttura e le proporzioni parlassero», commenta. «Le colonne originali, le nicchie e le altezze sono diventate parte della narrazione». Il risultato è una sequenza fluida di ambienti che si aprono l’uno sull’altro. Il soggiorno e la sala da pranzo formano un grande spazio a elle, attraversato dalla luce naturale che entra dalle finestre e dalle aperture interne. Le zone lettura, conversazione e pranzo non sono definite da muri ma da presenze: gruppi di piante, colonne originali, pezzi d’arredo strategici.

Come in tutti i progetti di Dimorestudio, il colore gioca una parte fondamentale. C’è stato un momento in cui certe tonalità di blu e di verde, particolarmente intense e avvolgenti, veniva automatico associarle a loro, erano diventate un marchio di fabbrica. «Per me il colore è un modo di costruire emozione e profondità», riassume Emiliano.
Ha scelto tonalità calde e terrose: l’arancione bruciato, un beige morbido, il marrone scuro e il nero lucido. «Le pareti non sono mai neutre: assorbono e restituiscono la luce in modo diverso durante il giorno. Le nicchie sono dipinte in bianco avorio per valorizzare le porcellane e gli oggetti che custodiscono. Ogni scelta cromatica nasce da un gesto architettonico: un’apertura, una curva, un riflesso».

L’arredo è un inventario di passioni e trovate: «Molti pezzi mi seguono da anni: oggetti che conosco, che ho disegnato o collezionato. Altri li ho cercati appositamente per questa casa, per completarne la voce. Mi piacciono i contrasti misurati: un cassettone orientale su un tavolo in vetro degli Anni 50, un tavolo di Caccia Dominioni accanto a una lampada contemporanea di Dimoremilano. Ogni elemento è scelto per la sua capacità di appartenere al luogo, non per imporsi».

Emiliano ama collezionare arte, «ma senza un criterio rigido». In casa si vedono opere di Candida Höfer, Luigi Ghirri, Enrico Castellani, ma anche una Madonna del Settecento. Tutto contribuisce a creare atmosfera, che è la materia prima di questo progetto.
Se gli chiedi cosa preferisce disegnare, una casa o una scenografia, Emiliano Salci non ha esitazioni: «Una casa. È più vera, più silenziosa, più lunga. Una scenografia si chiude quando cala il sipario, la casa continua a vivere e a cambiare con chi la abita».
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