A casa dei designer Fabio Calvi e Paolo Brambilla

Foto Helenio Barbetta per Living

Garbo, ironia e senso granitico del progetto: quella di Fabio Calvi e Paolo Brambilla è un’autorialità mai prevaricante, coltivata in anni di duro lavoro. Nonostante amino ricondurre il proprio segno a un modo di fare eclettico, per via della versatilità del portfolio clienti, spicca una certa milanesità, colta e divertita.

«Sai che non ne sono sicuro?», riflette ad alta voce Fabio, incorniciato dal brown del tessuto della Aeo di Paolo Deganello, mentre Paolo (Brambilla) ascolta accomodato nel blu elettrico del loro Bumper.

«Onore all’eleganza controllata di Caccia Dominioni, Gardella e Citterio, ma sentiamo più affine il filone anarchico dei fratelli Castiglioni e di Joe Colombo», padri putativi di un movimento libero e rivoluzionario che ha sdoganato la forza del pensiero laterale. «Anche noi, come loro, non abbiamo paura di perdere il controllo, azzardiamo con intuizioni impreviste».

Siamo al settimo piano di uno stabile degli anni Cinquanta, disegnato dal Mario De Ambrosis, allievo di Ponti. È sufficiente guardarsi intorno per capire che qui nulla è lasciato al caso: «Per noi i dettagli sono l’elemento di connessione tra architettura e paesaggio e, cambiando scala, tra l’oggetto e l’interno domestico».

Centoquarantacinque metri quadrati con terrazzo a sorpresa: «Da qui si vede piazza Gae Aulenti», dicono. «Ci siamo divertiti a progettarla, soprattutto maneggiando il colore. Ci è servito sia per riproporzionare la stanza – il soffitto si chiude altissimo a oltre cinque metri – sia per raccordarsi con il rivestimento della facciata. E poi c’è questa parete tessile che scorre per proteggere l’ambiente cucina».

Omaggio alla ‘machine à habiter’ di Le Corbusier, è una sorta di muro curvilineo. Pennellate e movimento dunque, dettagli entrambi studiati per dilatare e comprimere lo spazio, «e per non svelare già dall’ingresso la distribuzione della pianta». Luce moltissima e palladiana originale a terra.

A casa dei designer Fabio Calvi e Paolo Brambilla
Foto Helenio Barbetta per Living

Proseguiamo. Oltre il mobile rosso a parete, scarpiera e lavanderia convivono con due pezzi iconici: «La Luce Orizzontale dei Bouroullec, originariamente disegnata per la Bourse de Commerce di Parigi, e la Teti del Vico». Sacro e profano: ci vuole carattere per osare.

Accanto, la zona notte: «Qui è dove dormo io», dice Fabio indicando la stanza nella quale troneggia il letto Itititi di Castiglioni, «un vintage in fibra di carbonio realizzato con Giancarlo Pozzi. A parete, il mobile contenitore di Ron Gilad

Le lampade? «Celestia di Afra e Tobia Scarpa e Paesaggio italiano di Denis Santachiara, quella che proietta le pecorelle a parete». Le conti? «No, mi addormento subito».

Chiudiamo la porta prima di inciampare nella Tre Pezzi di Albini: «È l’edizione per i 50 anni della Metropolitana Milanese».

Questa è la stanza del Brambilla? «No, questa è la cabina armadio». Ma il Brambilla dove dorme? «Il Brambilla dorme in una iurta in terrazza. Ci credi?»

Attraversando il living, dove troneggia Paracarro, il bellissimo tavolo di Giovanni Offredi, incrociamo l’appendiabiti Sciangai di De Pas, D’Urbino e Lomazzi. Quanta bellezza.

Zona pranzo con tavolo arancione, sedie vintage e lampada Arco di Achille Castiglioni
Foto Helenio Barbetta per Living

«Sì, da questo punto di vista, siamo abbastanza enciclopedici. Quella la conosci», afferma sicuro indicando la lampada Taraxacum 88 sospesa accanto alle scale. «Paolo ha scelto per il pezzo dell’Achille – Castiglioni, naturalmente – questa posizione ‘pivotale’, una centralità aerea che accompagna lo sguardo al piano superiore».

Saliamo: eccola la stanza di Paolo. L’opera di Giovanni De Francesco si fa notare subito. È un sedere. Di chi? «Non si sa». Elegantissima e in ottima compagnia, tra i pezzi di Malouin, Trini Castelli, Bellini e Fronzoni.

Scendiamo: «Lì», indica l’ampio davanzale, «c’è la collezione di vasi di Angelo Mangiarotti e Lino Sabattini, di Paolo. Questo invece è Chichibio, un porta-telefono, porta-pagine gialle degli anni Trenta, di Gino Levi Montalcini e Giuseppe Pagano. L’abbiamo rubato».

Non so se crederci, ma sto al gioco.

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