Il video dell’installazione Library of Light progettata da Es Devlin in occasione del Salone del Mobile
Ci voleva Es Devlin per allineare il popolo della Design Week: la sua Library of Light — realizzata nel Cortile d’Onore del palazzo di Brera dal Salone del Mobile.Milano insieme alla Pinacoteca e con il contributo di Feltrinelli — è di certo l’installazione più visitata della kermesse milanese. Scultura cinetica per gli amanti dell’arte, esempio ingaggiante di performing architecture per i progettisti più radicali, giostra in movimento perpetuo per il pubblico più trasversale: descriverla apre già un tema di dibattito. Da qualunque punto di vista la si osservi, quella firmata dall’artista e costumista che progetta le scenografie per i tour di Beyoncé e degli U2, è un’opera monumentale di 18 metri di diametro, il cui corpo cilindrico, definito da una scaffalatura luminosa a passo digradante, si apre per invitarci a salire.
Circondata da microfoni, obiettivi e iPhone pronti all’ultimo selfie, l’abbiamo incontrata proprio nel cuore dell’installazione. «Progetto opere performative da oltre 10 anni», puntualizza sorridente. «Certo, mi occupo anche di musica, ma direi che rispetto alla mia pratica quello è un aspetto secondario». Oltre i clamori da pop star, una laurea in letteratura inglese all’Università di Bristol e un diploma in belle arti alla Central Saint Martins, fanno di lei un’artista poliedrica dalla sensibilità multidisciplinare. Lo si intuisce anche dai titoli degli oltre 3.000 volumi esposti nella sua libreria.

«È una questione di codici: ogni installazione ha i suoi ed è importante sapere quali utilizzare per coinvolgere il pubblico», che cambia ogni volta. Al Salone del Mobile, come a Las Vegas o a Glasgow, dove in occasione di COP26 ha presentato un’installazione di 197 alberi, tanti quanti i Paesi che ratificarono la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. «Progetti, quelli legati alla riforestazione, che, considerando i danni che la professione dei creativi sta arrecando all’ambiente, si stanno moltiplicando. Ne conviene anche Hans Ulrich Obrist», dice Devlin, riferendosi al direttore artistico delle Serpentine Galleries.
Mi chiedo dunque se nel lavoro di Devlin esista una connessione manifesta tra l’idea di preservare la natura e quella di nutrire la cultura. Non è infatti un caso che in Remember Nature: 140 Artists’ Ideas for Planet Earth — il libro scritto a quattro mani da HUO e Kostas Stasinopoulos (ED. Penguin) dedicato alle pratiche più significative e diversamente impegnate di oggi — compaia proprio il nome dell’artista inglese.
«In qualità di umano, uno dei miei timori è la potenziale estinzione della capacità di vedere attraverso gli occhi degli altri», la biblioteca dunque come strumento per esorcizzare la paura. «I libri sono gli sguardi altrui, e lo spazio che li ospita, luoghi in cui immaginare la cura. Se non facciamo nostro questo pensiero, siamo davvero in pericolo». Nel tentativo di spiegare perché, la discussione vira lentamente verso le neuroscienze: «Gli emisferi del nostro cervello hanno funzioni diverse: se in quello di sinistra ha sede il linguaggio, la logica, la razionalità, in quello di destra, la percezione, la creatività, l’interpretazione emotiva. All’inizio era tutto molto semplice: l’uno ci indicava cosa mangiare, l’altro, come sopravvivere. Ma come insegna il neuroscienziato Ian McGilchrist, oggi la dimensione transazionale, ovvero razionale, ha sempre più la meglio su quella trascendente, ovvero emotiva”, e a rimetterci è il Pianeta, “verso il quale non nutriamo compassione. Le mie opere”, incalza, “ingaggiano un pubblico ampio, eterogeneo trasversale perché quello che vado sempre cercando sono persone che, pur nella diversità, sono ugualmente mosse proprio da compassione. Si, è così».
Ma pensi sia ancora considerato un valore?
«Ieri, come ogni volta che parlo ai giovani, a Milano come a Parigi, Londra, New York, c’è sempre un piccolo gruppo di persone che si commuove, che mi avvicina e cerca un abbraccio. Non è un pianto di dolore, piuttosto di scoperta», come se il suo lavoro rimettesse in equilibrio gli emisferi, fornendoci con l’amore, più che con il calcolo delle probabilità, una possibilità di riscatto.
«Ho sempre percepito le biblioteche come luoghi silenziosi, ma intensamente vibranti, dove menti e immaginazioni si librano in volo, trattenute come aquiloni dai corpi seduti che le ospitano. Questa scultura cinetica rappresenta le connessioni sinaptiche che si intrecciano, le risonanze e le associazioni che prendono vita nella mente di una comunità temporanea di lettori».
E la rotazione? C’è da chiedersi quale ruolo giochi in relazione a questa idea di preservare la conoscenza.
«Il moto è solo un modo per ricordarci quello che continuiamo a dimenticare: che siamo tutti sempre in movimento. Abituati a osservare la realtà da un unico punto di vista, abbiamo perso la percezione della rivoluzione del Pianeta. Quella che ho impresso alla biblioteca è solo una piccola accelerazione, per ricordarci chi siamo e come viviamo: servirebbe fare un passo indietro nel XIX secolo, all’invenzione del time-lapse, perché è solo dando al tempo un valore diverso che si riesce a cogliere il cambiamento. Talvolta, il compito di noi artisti, è proprio quello non solo di modificare il punto di vista, ma anche la scala del tempo”, provando a dilatarlo.
Non abbiamo ancora parlato della donna che ha ispirato questo lavoro: Maria Gaetana Agnesi è l’unica statua femminile tra quelle dedicate a celebri cercatori di conoscenza e illuminazione. Un omaggio al femminismo?
«Quando sono entrata in questo luogo, mi sono guardata attorno: ero circondata da soli uomini. Chi con il mappamondo in mano, chi con un righello o una bussola. Uomini che impugnano strumenti per soddisfare la propria curiosità. Mentre cercavo qualcuno che mi somigliasse, trovo una donna che non ha le braccia. È un busto e non tiene nulla in mano. È Maria Gaetana Agnesi, una donna spinta dal padre, uomo di grande intelligenza, a diventare la straordinaria matematica che è stata: la sua è una storia di ascesa spirituale e devozione che la portò a scrivere il più importante libro sul calcolo del XVIII secolo. Ecco, volevo darle uno strumento”, Library of Light è il suo».
In tempi come quello che stiamo attraversando, di grande erosione dei diritti, abbiamo tutti bisogno di aggiornare i nostri strumenti. “Ma la lotta non è il mio. Credo nella pluralità di voci e sguardi, ogni volta che emerge prepotente un pensiero diverso da ciò che mi rappresenta, porto in risposta il mio punto di vista”, che ruota ed è sempre in movimento. Come la sua architettura milanese, che arriva diritta al cuore delle persone.
L’articolo Es Devlin: «Vi racconto la vera storia della mia Library of Light» sembra essere il primo su Living.