Quando il cemento si sposa bene con la natura
Ludwig Godefroy non ha dubbi, l’architettura è una forma di rispecchiamento che restituisce al mondo la sua voglia di muoversi e viaggiare. Di andare alla scoperta di culture, paesaggi e luoghi nei quali calare la sua idea di abitare: «Dopo vent’anni all’estero, non appartengo più a nessun posto. Mi sento finalmente libero».
È nel 2007 che il progettista di origini normanne si trasferisce a Città del Messico, dove, dopo una laurea in architettura e un passaggio negli studi di Thomas Leeser a New York, Enric Miralles e Benedetta Tagliabue a Barcellona e Rem Koolhaas a Rotterdam, sceglie di vivere e lavorare.

«Sentivo il bisogno di scoprire l’America Latina e volevo imparare lo spagnolo. Oggi mi sento un francese in Messico e al tempo stesso, quando torno alla mia cara vecchia Europa, un messicano in Francia. Questa terra con il suo clima, il saper fare e le radici preispaniche è una fonte di ispirazione continua. Senza questa influenza, la mia architettura sarebbe sicuramente diversa».

E il progetto di Casa Soskil non tradisce l’affermazione. Siamo a Mérida, capitale dello stato messicano dello Yucatán e città custode di un ricco patrimonio Maya e coloniale. Qui, dove la vegetazione è protagonista, la coppia proprietaria dell’immobile decide di costruire la sua dimora estiva: 250 metri quadrati di spazio domestico aperto, fluido e poroso. Il clima è sempre caldo e la possibilità di vivere all’aperto annulla il confine tra interno ed esterno.

Un mix di alberi e piante autoctone, come la Guajava, il Mamey Zapote, la Pitaya e Tamarindo, insieme a foglie di banano, cactus e Succulente, ha il compito di animare i vuoti: «Il giardino è la casa e la casa è il giardino», un sillogismo che svela il senso di un’architettura pensata in armonia con il fluire del tempo, capace di giocare con il movimento di luci e ombre che scolpiscono il volume brutalista.

Nonostante Soskil traduca dalla lingua Maya il nome di un tipo di fibra vegetale, «qui è un’esplosione di cemento, a pavimento, alle pareti, per gli elementi strutturali come scale e colonne. Il resto lo fanno le texture, un arcobaleno di superfici lisce, ruvide e colate, disegnate per sollecitare vista e tatto», per restituire infine l’idea di una convivenza armonica tra artificio e natura. «Per me non è semplice definire l’armonia. Corrispondenza, risonanza, sintesi: qualunque significato le si voglia attribuire, per me è sempre una questione di dialogo, di incontro, di relazione che rende unica l’architettura».

Una cifra autoriale, quella che lega Godefroy alle atmosfere dello stile brutalista, nella quale si rintraccia il suo passato: «L’uso del cemento è un ancoraggio alla mia terra di origine, al Vallo Atlantico», in tedesco Atlantikwall, il sistema di fortificazioni costiere costruito dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale per impedire un possibile sbarco alleato nelle coste occidentali d’Europa. «È lì che sono nato, un piccolo villaggio della Normandia, circondato da bunker: un vuoto anomalo che nella mia mente di bambino era un parco giochi».

Poi lo studio, Le Corbusier nel suo periodo post-bellico a Chandigarh, e Louis Kahn a Dhaka saziano la curiosità e completano la formazione. «Da qui l’interesse per l’aspetto grezzo, radicale e scultoreo dell’architettura in cemento. Che però mi piace contaminare, mettere in dialogo con atmosfere e codici altri come le piramidi messicane, in un cortocircuito creativo che restituisce il senso della mia dimensione nomadica: di non appartenere ad alcun luogo».

Il suo è un lavoro di collage, di immagini catturate nei tanti viaggi che lo portano in giro per il mondo e che ricompone ogni volta in un nuovo equilibrio. Gli interni? «Nessun elogio al design, ai designer e alla loro autorialità», chiude l’architetto, «solo mobili su misura, pezzi vernacolari e artigianato messicano». Nel rispetto di un vuoto che lascia parlare il territorio.

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