La vivacità del Fauvismo unita alla geometria del Bauhaus, ma con un pizzico di punk. Geoffroy Pithon, classe 1988, è un artista poliedrico che, nelle sue opere unisce influenze artistiche, graphic design, disegno e pittura. Nato ad Angers, si trasferisce a dieci anni a Nantes; quindi, a Parigi dove frequenta l’École des Arts Décoratifs. Dopo alcuni anno nel collettivo di graphic design Formes Vives, torna a vivere a Nantes, dove fonda il suo studio e il suo atelier. I suoi lavori vanno dalle carte da parati, come dimostra la recente collaborazione con il brand Casamance, a pitture su larga scala che decorano le pareti di ville, palazzi e fabbriche abbandonate.
Come si diventa artisti?
Vengo da un percorso come graphic designer, ho avuto un legame con il disegno e la pittura. Lavorando nell’ambito della cultura, realizzavo poster per il teatro e per le mostre, mi è sempre piaciuto trasformare in arte le idee. Il collettivo in cui lavoravo era molto sperimentale, sempre intento a provare cose non convenzionali, più orientate a oggetti stampati, fanzine, piccole edizioni fatte con pittura e disegno. Dopo il Covid, decisi di diventare un artista a tempo pieno, era il momento di seguire le intuizioni che avevo in relazione alla pittura, ai temi del colore, ai rapporti di composizione e di forma.
La tua cifra distintiva è senz’altro il colore, come lo definiresti in questo momento storico?
Il colore è una componente fondamentale del mio lavoro, è alla base. Li creo personalmente usando pigmenti, è una pratica molto difficile anche perché non si tratta di una scienza esatta. Non faccio bozzetti preparatori, lavoro direttamente con le vernici già pronte, poi un colore ne richiama un altro. Per me, non esiste un colore in sé: il colore è sempre in relazione agli altri. Faccio dialogare diverse forme riempite di un colore tra di loro.
Il colore è energia. Lo uso per il suo aspetto primordiale, è una vibrazione, quasi una musica. La mia è una tavolozza abbastanza riconoscibile, soprattutto perché uso molti colori molto saturi, e, ogni tanto, fluorescenti.
Millenial, la tua è una generazione cresciuta davanti agli schermi. Prima la televisione e i videogame, poi lo smartphone. Quanto influisce sul tuo lavoro?
Come graphic designer sono stato molto tempo davanti a un computer. Le prime sensazioni con la pittura erano legate allo schermo e quando ho deciso di dipingere, ho anche desiderato ritrovare l’intensità luminosa cromatica sullo schermo, cosa difficile da ottenere con la pittura. È per questo che ho sentito il bisogno di usare colori abbastanza saturi, per allenare il mio occhio e il mio sguardo a questa sollecitazione. Questa potenza del colore si può ritrovare anche in culture che mi hanno influenzato molto durante i viaggi, come l’India.
Quali sono state, invece, le tue influenze artistiche?
Sicuramente i coloristi e i grandi pittori del colore, i maestri del Fauvismo. Poi penso ovviamente all’arte moderna francese, a Henri Matisse, Pierre Bonnard, Paul Gauguin, Édouard Vuillard. La lista degli artisti contemporanei che gravitano intorno al mio lavoro è molto lunga, quindi è difficile stilare una lista esaustiva, ma ci si può rifare a figure tutelari: penso anche a Sonia Delaunay, soprattutto per quanto riguarda l’astrazione.
Non solo pittura, i tuoi riferimenti provengono anche dal mondo delle arti applicate. Cosa ti affascina?
Molti dei miei riferimenti sono legati all’architettura, al design, alla moda, all’abbigliamento. Quindi artisti come Le Corbusier, grandi artisti del Bauhaus, Max Bill, che hanno imposto una modernità audace con molta ambizione. Sono scomparsi, ma sono giganti eterni.
Ti hanno definito punk, ti ci ritrovi?
Ho fatto molta musica punk, hardcore, e cose abbastanza aggressive. Penso che sia anche una questione di energia: lavoro abbastanza velocemente, con molta espressività, in modo spontaneo. Questo si ritrova anche nella mia arte: non è affatto modellata, non è definita, non è liscia. Ha una sorta di rigore, è grezza. Più che punk, mi ritrovo in uno stile selvaggio, brutalista.
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