«La bellezza deve essere accessibile a tutte le fasce della società»

Fertilia in movimento

Progetti che abbiano un impatto sociale, realizzati in contesti vulnerabili con l’idea di dare forma a un’architettura al servizio della comunità e dei più fragili. È questa la formula breve, eppure innescatrice di lunghe catene virtuose, che traccia le linee direttrici del lavoro di ARCH+HR, laboratorio internazionale di ricerca che investiga sul dialogo tra architettura e diritti umani.

Fondato dall’architetto cileno Jorge Lobos nel 2020, è un’organizzazione non-profit che opera nei contesti di emergenza – sociale, ambientale e non solo – in diverse zone del mondo, dal Cile, il Brasile, l’India e l’Egitto fino all’Ucraina, la Danimarca e l’Italia, dove Jorge Lobos è docente presso l’Università di Sassari e presso lo IUAV di Venezia.

Il laboratorio segue le ricerche e le pratiche sperimentate da Jorge Lobos attraverso il suo studio in Cile, avviato nel 1985 nell’arcipelago di Chiloé, in Patagonia. Qui, Lobos ha lavorato per decenni alla costruzione un’architettura culturale, capace di mischiare arte e scienze sociali in modo da rispondere alle sfide globali. Sfide che impongono un ragionamento trasversale sulla progettazione, complesso quanto il contesto che ci abita, e in cui la figura dell’architetto superi quella del progettista di edifici, facendosi al contempo attivista culturale, mediatore sociale e difensore dei diritti umani.

Da questa visione sono nate decine di progetti pensati per mitigare le disuguaglianze e ampliare i diritti, dalle abitazioni prefabbricate in legno per contribuire alla ricostruzione delle città distrutte dalla guerra in Ucraina fino alla trasformazione di un ex hotel a 5 stelle di San Paolo in una struttura che accoglie 125 famiglie senza dimora, passando per la realizzazione di case sull’albero accessibili ai bambini disabili in Cile.

Il sistema di case prefabbricate in legno pensato per ricostruire le città più colpite dalla guerra in Ucraina

Un impegno, quello per porre l’architettura al servizio dell’umanità, che negli anni si è diffuso in tutto il mondo attraverso vari workshop e alcune docenze in Portogallo, Spagna, in Danimarca e infine in Italia, all’Università di Sassari e allo IUAV di Venezia, dove Jorge Lobos ha avviato il Postgraduate Master Emergency & Resilience.

«L’architettura ha la missione di consolidare una nuova prospettiva umana per affrontare il contesto di oggi, percorso da emergenze umanitarie, crisi climatica, neo-liberalismo, ingiustizie sociali, migrazioni e pandemie. Deve confrontarsi con una transizione dal capitalismo del 20esimo secolo a un nuovo sistema che non ha ancora nome», spiega Jorge Lobos nel Manifesto di ARCH+HR.

A San Paolo, ARCH+HR ha lavorato alla trasformazione di un ex hotel in una dimora per senzatetto

Proprio per diffondere questi principi, ARCH+HR ha recentemente organizzato la rassegna Utopia! Architettura e diritti umani, andata in scena a Roma dal 14 al 21 novembre 2024. Abbiamo intervistato Eleonora Carrano, progettista di ARCH+HR e curatrice della rassegna, per parlare di come sia necessario, oggi più che mai, stimolare l’impegno dell’architettura verso le emergenze e le cause sociali.

Eleonora Carrano

Intervista a Eleonora Carrano di ARCH+HR

Quando e come è avvenuto il tuo incontro con lo studio?

Ho conosciuto Jorge Lobos in Argentina, all’Università di Rosario, dove ero borsista. Conoscendoci abbiamo capito di avere molti interessi in comune. Da lì è partita la nostra collaborazione, alla quale hanno fatto seguito vari workshop in tutto il mondo, dal Cile, innanzitutto, fino alla Facoltà di architettura di Sassari, dove Jorge Lobos è professore ordinario. Insieme a Silvia Serrelli e a Josep Miàs, entrambi docenti presso l’Università di Sassari, abbiamo sviluppato il master Postgraduate Master Emergency & Resilience allo IUAV di Venezia, ogni anno incentrato su un tema diverso. L’ultimo era sulla resilienza, termine oramai consunto, spesso usato a sproposito. Per il prossimo cambieremo sicuramente focus.

Rigenerazione, resilienza. L’abuso di alcuni termini rischia di togliere forza alla progettualità?

Certamente. Il rischio, nel campo dell’architettura per i diritti umani, è che le mode affievoliscano i suoi contenuti. Io mi occupo di questi temi da 15 anni e Jorge Lobos da 40. Di rigenerazione urbana, per esempio, se ne parla a sfinimento, e spesso si pensa che basta far dipingere un muro a uno street artist per rigenerare una periferia. Non è così. Rigenerare davvero una periferia è un progetto serio, che deve prendere in esame la ristrutturazione degli spazi esistenti, la creazione di spazi comuni e la loro cura, oltre alla realizzazione di luoghi di cultura. In Italia continuiamo ad aprire musei nei centri storici, mentre gran parte delle persone vive nelle periferie. A Roma va segnalato però il museo delle periferie che sta portando avanti Giorgio de Finis con grande tenacia da molti anni.

Tra gli obiettivi di ARCH+HR c’è sempre stato quello di superare lo stereotipo dell’esclusività dell’architettura. Qual è il modo giusto, per voi, di avvicinare le persone alla progettazione?

In generale, l’architettura è accessibile a pochissime persone. Ce lo dice un dato eclatante: il 90% degli architetti, nel mondo, vive nei paesi più ricchi del pianeta. E anche nei cosiddetti paesi ricchi, un architetto non è accessibile alle fasce più povere della popolazione. Noi abbiamo cercato di sovvertire un po’ questa visione comune, a ribaltarla. Abbiamo iniziato a riflettere su come l’architettura in realtà possa, anzi abbia il dovere, un dovere etico, di migliorare la condizione della gente, di tutte le genti, di tutte le classi sociali. L’architettura ha una funzione sociale fondamentale e anche dirompente in alcuni conflitti sociali, piccoli o grandi che siano. Anche per allargare e diffondere questa riflessione è nata la rassegna Utopia! Architettura e diritti umani.

La prima edizione di Utopia! Architettura per i diritti umani

Qual è stata l’esperienza della prima edizione della rassegna?

È nata quasi come una provocazione, pensando anche un po’ alle Utopie realizzabili di Yona Friedman. Siamo partiti da una domanda: è così utopico mettere l’architettura al servizio della società? Al di là delle mode e dei termini più o meno consunti, noi perseguiamo questa strada. Ci tengo anche a precisare che ARCH+HR è un’associazione che non ha scopo di lucro, quindi non viviamo dei nostri progetti. Anzi: a volte non riceviamo neanche dei rimborsi spese. Per esempio, per questa rassegna abbiamo avuto molti patrocini ma nessun contributo economico, quindi è stata praticamente autoprodotta.

Nella rassegna si è parlato anche di architettura dell’emergenza. Perché è più che mai importante parlarne ora, qui, in Europa?

Abbiamo sempre pensato che l’emergenza fosse lontana da noi, che riguardasse altri continenti dove si svolgono i conflitti. Anche il cambiamento climatico ci appariva in modo astratto, remoto. Lo scioglimento dei ghiacciai, invece, lo stiamo vedendo da vicino. Gli incendi, anche. Le tempeste, pure. Le emergenze che pensavano non ci avrebbero mai riguardato hanno iniziato a toccarci da vicino. Dunque perché l’architettura non dovrebbe interessarsi a questo? L’emergenza diventerà la nostra quotidianità. Anzi, lo è già. In questo contesto, noi pensiamo che la figura dell’architetto debba cambiare, che debba avere un ruolo sociale ed etico.

Non il solito ruolo dell’archistar…

Decisamente no. Le archistar non ci interessano, come non ci interessa un tipo di architettura referenziale e spettacolare. Questo non significa che non sia giusto fare anche quel tipo di architettura, un’architettura che ha dei costi, un interesse e che sia assolutamente bella. Su quest’ultimo punto, poi c’è un grandissimo fraintendimento: anche l’architettura dell’emergenza può essere bella, anzi, bellissima. La bellezza è fondamentale in questo tipo di progettualità.

Come gli ospedali “scandalosamente belli” progettati da TAMassociati per Emergency.

Proprio così. Noi pensiamo che la bellezza debba e possa essere accessibile a tutte le fasce della società. Non deve essere appannaggio di una classe sociale. Pensiamo che l’architettura, se realizzata da professionisti seri, debba offrire in primo luogo bellezza. E l’architettura bella può costare anche poco. Ce lo hanno insegnato i grandi architetti come Giuseppe Terragni, Luigi Moretti.

Molti dei vostri progetti hanno infatti budget molto ristretti e si fondano sul coinvolgimento e l’attivazione della popolazione locale. In che modo questo approccio aiuta a mitigare le disuguaglianze?

Faccio un esempio concreto. A Fertilia, cittadina vicina ad Alghero, abbiamo promosso un piccolo progetto che ha avuto un riscontro molto importante: Fertilia in Movimento. A Fertilia si trova una piccola comunità di persone con un background migratorio: per favorire il dialogo interculturale, insieme alla Facoltà di Sassari abbiamo organizzato una serie di iniziative che hanno coinvolto tutta la cittadinanza. In un’area verde abbandonata abbiamo proposto di realizzare un circolo che diventasse un luogo di incontro tra le persone, un piccolo teatro. Lo abbiamo creato tutti insieme, migranti e persone locali, con dei semplici sacchi di juta pieni di terra. Vedere questi ragazzi giovani che si sono prestati a fare qualcosa per tutta la cittadinanza è stato qualcosa che ha alimentato una grande fiducia, che ha costruito ponti. Si tratta di un progetto microscopico, certamente, ma che ha messo a dimora grandi semi di interconnessione. Questo è un piccolo esempio di cosa può fare l’architettura per promuovere l’uguaglianza. Ma nelle scuole di architettura, purtroppo, questo viene insegnato ancora troppo poco.

Fertilia in movimento

Qual è il vostro contributo nel mondo accademico?

All’Università di Sassari tutta la progettazione architettonica è incentrata sul rapporto tra architettura e diritti umani. Per noi è importante diffondere l’idea che l’architetto possiede tutti gli strumenti per provare a risolvere una serie di problematiche sociali. È anche attraverso la progettazione di una piazza o di una panchina che si può mitigare un conflitto sociale, soprattutto coinvolgendo le persone che andranno poi a vivere uno spazio. Nel master post-laurea allo IUAV di Venezia, poi, affrontiamo argomenti come il cambiamento climatico, le emergenze umanitarie e la ricostruzione, tre temi forti che l’architettura deve iniziare ad affrontare in modo più concreto. Ce lo chiede il mondo, del resto, e forse è ora di iniziare a farlo.

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