Dopo un libro e un podcast che come un manuale hanno decriptato la Roma in cui degrado e bellezza diventano indistinguibili, La Città dei vivi di Nicola Lagioia diventa uno spettacolo teatrale, a firma di Ivonne Capece (in scena a Milano, il 13 e il 14 novembre e dal 17 al 26 novembre). E gli spunti anziché esaurirsi si moltiplicano, come se al posto di dare risposte e aiutarci a capire l’omicidio di Luca Varani, in quella sera folle tra il 4 e il 5 marzo 2016 nel quartiere Collatino, la rappresentazione ci confondesse, ci spingesse a farci altre domande e a generare altri dubbi.

La scenografia al Teatro Fontana è il primo enigma: elettrodomestici e luci al neon si fondono a statue di gesso dal sapore antico, collocate in alto come presenze che osservano. Sembrano in fase di restauro e i quattro interpreti le spostano e ci giocano. È Roma? La grande bellezza che si fonde con la malinconica ordinarietà delle case di periferia e l’illuminazione fredda delle strade. Sergio Leone, Daniele Di Pietro, Pietro De Tommasi e Cristian Zandonella ci giocano, danzano con la storia con disinvoltura. Leone interpreta ruoli diversi, ma incarna la stessa figura ogni volta in modo nuovo: cambia voce, gesti, fragilità, autorità, ma rimane sempre riconoscibile un nucleo comune, quell’archetipo che tutti chiamiamo “padre”.

All’inizio questo continuo mutare può confondere, perché il volto del padre sembra moltiplicarsi, sdoppiarsi, scivolare da un personaggio all’altro. Ma proprio questa vertigine ha qualcosa di poetico, come se l’attore mostrasse che la paternità non è una forma unica, bensì un insieme di possibilità, sfumature, limiti, ferite e tenerezze che convivono dentro di noi. E siccome la cronaca è ovunque e insegue anche chi cerca di starne lontano, è facile riconoscere il padre spaccone e angosciato di Foffo, quello pudico e attonito di Prato, quello limpido e disperato di Varani.

Le donne non ci sono sul palco, se non qualche apparizione negli schermi e nelle proiezioni mappate sulle statue. Ma rimangono echi lontani, come le mamme che non compaiono mai. E qui c’è la sottotraccia di tutto lo spettacolo, quel sistema patriarcale che governa le città e la vita dei figli che in qualche modo catapulta in scena la figura della regista, che c’è sempre e non c’è mai. I tre interpreti danzano, si dimenano, cantano Vedrai, vedrai di Tenco, canzone che scivola nei loro occhi strafatti e colpevoli come una promessa mai mantenuta. I due assassini non cercano redenzione, ma la voce di Tenco li sfiora come un ricordo di ciò che potevano essere. E per un istante la loro ombra trema, incrinata non dal senso di colpa, ma da quello di incredulità.

I due giovani parlano come se fossero trascinati da forze che li superano, incapaci di decidere davvero. La cocaina conta, ma non basta a spiegare tutto: c’è anche l’impossibilità di uscire dal proprio riflesso. Se non riesci a guardare oltre te stesso, fai fatica a formare un’identità stabile, perché l’identità nasce dal riconoscere l’altro. Loro, non riuscendoci, si ritrovano in frantumi e si abbandonano alla droga. Si dimenano sul palco, nudi, si rotolano a terra e ricompaiono nell’immagine fortissima, che lascia esterrefatti, di loro ricoperti da polvere bianca.

E ciò che nella realtà era diluito in quattro giorni di alcol e psicofarmaci e droghe diventa, d’un tratto, un’unica scintilla che tutto contiene. E la stessa sensazione si ha quando Zandonella entra nell’ultima scena e in sala chiunque sa cosa sta per succedere. Di Pietro e De Tommasi giocano con lui. Saltano corde invisibili, diventano tori in corrida. E distruggono tutto: frigoriferi e lavatrici e statue cadono come in un rito che quel palco, che Roma, ha già visto.

Perché a Roma tutto è già successo e quindi nulla sembra grave. Persino un massacro. Come se nessuno riconoscesse a se stesso la possibilità del male. Lo spettacolo andrà avanti fino al 26 novembre e giovedì 20 è in programma una serata speciale con Nicola Lagioia e Stefano Nazzi a raccontare, post spettacolo, l’umano tra cronaca e finzione. Forse ci aiuteranno a rispondere alla vera domanda che ci lascia La città dei vivi, che non è quella pubblica e assolutoria del “perché lo hanno fatto?”, ma quella privata e ignobile del “potrei farlo anche io?”.

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