L’altra Dubai: cinque progetti che promuovono identità, cultura locale e resilienza

L’interno della tenda sotto la quale è andata in scena Downtown Design

A Dubai a novembre la temperatura è invernale, 35 gradi fuori, 21 dentro: sandalo e piumino, un compromesso già di per sè emblematico. Dal 24esimo piano di un grattacielo qualunque del Burj Khalifa District, lo skyline è un intarsio di vetri specchiati, piscine aeree color verde ametista e gru. La città è in progressione continua, si alza e si allarga, come il traffico lungo i boulevard che a picchi continui, alle 10 del mattino come alle 3 del pomeriggio, ti inchioda nei taxi. Lo scarto tra chi vive la verticalità e chi la rende possibile è talmente evidente che anche chiedersi a cosa serva o debba servire veramente tutto il design che mette in scena la Dubai Design Week appare un’ingenuità.

Due tendoni bianchi chiudono triangolarmente dall'alto un passaggio dove le persone possono sedersi su dei cuscini bianchi rotondi appoggiati per terra
‘Stories of the Isle and the Inlet’, l’installazione site specific, di studio Maraj di Latifa Alkhayat e Maryam Aljomairi, basato in Bahrein e sostenuto da Abwab, il programma di micro‑grant per i ‘creative practitioners’ degli Emirati

Eppure Dubai è un terreno fertile per la ricerca, soprattutto nel campo del progetto. Qui, dove ha scelto di fare base una comunità di giovani provenienti da oltre 200 Paesi diversi, dove i soldi girano copiosi tra le mani di pochi, dove il clima è la cornice di un paesaggio costellato di rifugi climatici e sciami di riders, la cultura macina contenuti. Partendo proprio dalle peculiarità di un territorio vasto che dal Mar Mediterraneo si allunga al Golfo di Aden per lambire l’Iran Occidentale e i monti del Caucaso, e abbracciare un caleidoscopio di umanità poco conosciuto a noi occidentali.

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L’agorà progettata da Roula Salamoun per Downtown Design
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Un altro scorcio dell’arena di Roula-Salamoun

Complice il Red in progress, l’appuntamento di fine novembre del Salone del Mobile a Riyadh, insieme alla prima volta di Nomad ad Abu Dhabi, all’Art D’Egypte ai piedi delle Piramidi di Giza, al Noor Riyadh festival e alla Dubai Design Week, pare sia giunto il momento di avvicinare con convinzione questa parte di mondo. Provando a dismettere quella postura di retaggio colonialista con la quale abbiamo osservato una cultura della quale sappiamo davvero poco.

Oggi, grazie anche all’impegno di una nuova generazione di progettisti, architetti e designer basati in Medio Oriente, stiamo assistendo alla costruzione di una contro-narrazione che convince. “Non esistono soluzioni universali”, ci aiuta a capire Natasha Carella, direttrice dell’undicesima edizione della Dubai Design Week. “Ogni battaglia, che sia contro il cambiamento climatico e la guerra, a sostegno della migrazione e dei diritti, per essere efficace, deve calarsi nei singoli contesti e produrre soluzioni specifiche. In dialogo con il territorio”.

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La collezioni di coffe table Tawlitna di Zein Hageali, omaggio ai codici dell’architettura siriana
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La collezioni di coffe table Tawlitna di Zein Hageali, omaggio ai codici dell’architettura siriana

Un esempio sono le pratiche situate, ovvero quel modo di fare design profondamente radicato nella cultura locale: “materiali come le foglie di palma, le canne di bambù, il fango o la pietra corallina, in Asia Occidentale, Meridionale e Sudorientale, così come anche nel continente africano, sono utilizzati da ben prima che l’Occidente inventasse per il design la sostenibilità”. Una puntualizzazione, quella di Carella, che smonta uno tra i grandi luoghi comuni che legge il Medio Oriente neofita della disciplina: “Siamo eredi di un patrimonio di saperi e tradizioni che, contrariamente a quanto si possa pensare, non abbiamo mai smesso di attivare come dialogo tra passato e futuro”.

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Il pubblico tra le installazioni site specific nel cuore del Dubai Design Distric: qui l’opera di Talhaan e Alyina Ahmed, Maximo Tettamanzi

Con oltre 30 installazioni diffuse nel d3 (il Dubai Design District), una fiera (il Downtown Design con annessa Editions dedicata al collectible design), collaborazioni importanti con istituzioni universitarie straniere (il RIBA), enti governativi (il Dubai Culture), urban commission e programmi a sostegno dei giovani, il festival di Natasha Carella si presenta al pubblico internazionale come un ecosistema progettuale che mette a fattor comune il proprio patrimonio di esperienze.

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Dettaglio del progetto ‘Stories of the Isle and the Inlet’, installazione site specific di studio Maraj di Latifa Alkhayat e Maryam Aljomairi

Fra tante esplorazioni site specific, quella dell’Abwab, il programma di micro‑grant per i ‘creative practitioners’ degli Emirati, che ha premiato il lavoro di studio Maraj di Latifa Alkhayat e Maryam Aljomairi, basato in Bahrein: ‘Stories of the Isle and the Inlet’ è un affondo nella pratica dell’ornamentalismo. Un involucro tessile che, grazie all’uso di filati prodotti e ricamati da artigiani e sarte locali racconta la storia di Nabih Saleh, un’isola bahreinita, fragile e leggendaria, situata tra le zone umide di Tubli e quella industriale di Sitra.

“Il Medio Oriente è soprattutto questo”, ribadisce Carella. “Ciò che si perde nei racconti che oscillano tra eccesso e spettacolarizzazione da un lato, disuguaglianze e fanatismo dall’altro, sono proprio queste sfumature. Che sono tante e diverse come le culture che plasmano e le storie di cui sono testimoni”.

Il design, dunque anche a Dubai, non è solo una questione di estetica. Basterebbe avvicinare il lavoro di Roula Salamoun, una laurea in Architettura all’American University di Beirut e un master alla Columbia University (NY), che qui è di casa e per la fiera ha reinterpretato il concetto di agorà. Ma anche quello di Zein Hageali e Tasneem Alnabhani: se la prima ha riflettuto sui codici dell’architettura siriana la seconda, con Tanween by Tashkeel — il programma a supporto di designer, artisti, ingegneri e scienziati emiratini — si è confrontata con il materiale di scarto del deserto. “Come ex direttrice della Jagtiani Foundation, mi sono spesso confrontata con progetti ad alto impatto sociale, in India come nella regione dello SWANA”, acronimo di Sud-Ovest Asia e Nord Africa, “dove tradizione e modernità sono in stretta relazione e artigianato locale e sapere vernacolare influenzano le pratiche contemporanee”.

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La mostra ’SILA. All That Is Left to You’ curata da Cima Azzam, Noor Suhail e Rula Alami al Maraya Art Centre di Sharjan sull’uso del ‘tatreez’, l’arte di ricamo palestinese
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Un’opera in mostra nell’ambito di ’SILA. All That Is Left to You’
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La mostra ’SILA. All That Is Left to You’

La mostra SILA. All That Is Left to You curata da Cima Azzam, Noor Suhail e Rula Alami al Maraya Art Centre di Sharjan è un esempio coraggioso: in scena nei due piani dell’edificio ospite, il racconto di come il ‘tatreez’, la tecnica di ricamo patrimonio culturale palestinese, venga utilizzata dalle donne rifugiate ovunque nel mondo come strumento di denuncia della propria condizione. Ago e filo, protagonisti in ogni opera, siano forme di progetto contemporanee, capaci di attraversare non solo il tempo, ma anche lo spazio.

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The Majlis il progetto site specific di studio AJZAL

“Situato, aperto allo scambio culturale e al servizio delle grandi trasformazioni che attraversano la nostra regione: per noi il design è un linguaggio che parla di spinte all’urbanizzazione, di pressioni climatiche, fino a includere le questioni identitarie”, chiude Natasha Carella. “Per sfidare gli stereotipi che ancora ci riguardano, non basta affermare che il nostro modo di progettare è sperimentale, complementare e consapevole. È fondamentale che ciascuno di noi si impegni a raccontare se stesso, le proprie esperienze e i luoghi nei quali vive”. C’è molto su cui riflettere, non solo in Medio Oriente.

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La collezione di specchi e console Bayn wa Bayn di Tasneem Alnabhani in materiale di scarto del deserto per Tanween by Tashkeel, il programma a supporto di designer, artisti, ingegneri e scienziati emiratini
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La designer Tasneem Alnabhan

 

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