L’architettura di Marina Tabassum tra ecologia e comunità

A capsule in time, il Serpentine Pavilion 2025. Foto Iwan Baan

Un laboratorio di auto-costruzione capace di scardinare i cliché della cultura popolare e sfidare le norme convenzionali della pratica architettonica: questo è, e di questo si occupa, lo studio di architettura di Marina Tabassum, fondato nel 2005 a Dacca, in Bangladesh. Con l’obiettivo di gettare le basi di un nuovo linguaggio progettuale, più attento alla crisi climatica e ai mutamenti geopolitici, la sua pratica è profondamente radicata alla cultura locale. Tanto da avere il coraggio di sfidare i codici religiosi e trasformare, là nelle periferie del mondo dove la guerra civile attraversa la quotidianità, un luogo di culto in rifugio.

«La nostra è una forma di resistenza creativa», ci spiega «che da oltre due decenni si oppone al fascino dell’architettura di consumo: ogni nostro progetto è la risposta sensibile e pertinente all’unicità dei luoghi e delle comunità che li abitano». Una ricerca, la sua, condotta a stretto contatto con geografi, architetti del paesaggio, urbanisti e molti altri professionisti, che intende migliorare le condizioni di vita di tutte le persone, «con particolare attenzione alle comunità marginalizzate e a basso, bassissimo reddito».

Lungo questo solco si muove anche A capsule in time, il progetto temporaneo più recente inaugurato a giugno nei Kensington Gardens delle Serpentine Galleries: uno spazio che, sino al 26 ottobre, si apre al pubblico per celebrare l’estate con un dibattito attorno ai temi di strettissima attualità. «Stare all’aria aperta, in compagnia di amici e familiari»: ancora un affondo nella tradizione locale, quella inglese. «Il nostro progetto è un invito a celebrare un rito di comunità, a stretto contatto con la natura».
Una cifra, la sua, che plana in Inghilterra in continuità non solo con il progetto per la moschea Bait Ur Rouf – luogo di meditazione e di preghiera, costruito a Dacca nel 2012 e che, per altro, si è aggiudicato l’Aga Khan Award for Architecture nel 2016 –, ma anche per il Friendship Center di Gaibandha, sempre in Bangladesh, che nel 2017 ha vinto l’AR Awards for Emerging Architecture. Manifesti di integrazione, sono tutti luoghi che provano a scardinare le convenzioni per restituire dignità all’uomo.

L’architettura di Marina Tabassum tra ecologia e comunità
Khudi Bari di Marina Tabassum, al Vitra Campus nel 2024. Foto Julien Lanoo

Tornando alla Serpentine, l’incarico per questo progetto è arrivato in un momento difficile. «Quando Hans Ulrich Obrist mi ha scritto per comunicarmi che la mia proposta sarebbe stata realizzata l’anno successivo, mi sono emozionata. Il Bangladesh stava attraversando un momento di disordini politici», confida Tabassum riferendosi alla rivolta studentesca del luglio 2024, «che hanno portato poi alla caduta del governo. Questo progetto è stato per noi una boccata d’aria fresca che ci ha dato fiducia».

Site specific, il manufatto è frutto di una riflessione sulla longevità dell’architettura e sul suo rapporto con il tempo: «quella tra permanenza e impermanenza è una relazione intrigante. L’architettura aspira all’eternità, sopravvive al tempo e nutre il concetto stesso di eredità», nonché l’intrinseco desiderio umano di continuare a esistere dopo la vita.

La struttura di Londra è idealmente connessa a ciò che accade a 8.000 chilometri di distanza, dove, lungo il delta del Gange, il paesaggio racconta storie di movimento e transitorietà. Spiega Tabassum: «Forse è bene ricordare che per due terzi della sua estensione, il Bangladesh è lambito dai fiumi Padma, Meghna e JamunaI: i corsi d’acqua sono responsabili di una particolare conformazione geologica la cui sedimentazione è instabile e impatta su architettura e paesaggio. A causa della natura idrogeologica, qui tutto è fluido e le abitazioni sono di conseguenza pensate per spostarsi, cambiare posizione. Migrare».

E adattarsi, come l’invito condiviso da Carlo Ratti con la sua Biennale di Architettura di Venezia. La Khudi Bari di Marina Tabassum, già atterrata nel 2024 nel Vitra Campus a Weil am Rhein, anche in Laguna si fa testimone di adattabilità. Esempio di casa mobile possibile in diverse località del Bangladesh soggette a inondazioni e all’erosione delle sponde dei fiumi, è realizzata su due livelli con materiali disponibili in loco, resiste a eventi climatici estremi, ed è messa in sicurezza con connettori in acciaio.

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A capsule in time, il Serpentine Pavilion 2025. Foto Iwan Baan

A Londra, invece, la struttura di A capsule in time, avvolta da un leggero materiale semitrasparente, scorre lungo i binari longitudinali per farsi testimone di un modo di pensare che resiste: «muovendosi, crea un evocativo gioco di luci che, per altro attinge all’immaginario delle tende bengalesi Shamiana». Il palcoscenico è pronto, i posti a sedere anche e immaginiamo lo sia anche il pubblico.

Favorire le comunità, rispettare l’ambiente, celebrare la cultura locale: sono questi gli asset su cui la progettista bengalese ha costruito la sua visione. Un vocabolario di pratiche necessarie, strettamente connesse ai temi di giustizia climatica, e distanti dall’interpretazione spesso fuori fuoco che noi occidentali attribuiamo al ‘green’: in Europa, oggi la sostenibilità appare sempre più svuotata di senso da stucchevoli riflessioni sull’abuso, più che riuso, di materiali, scarti e processi circolari. «Il nostro approccio è sempre quello di rispondere alle esigenze del contesto» chiude Marina Tabassum. E noi, a questa latitudine del Pianeta, a quali esigenze rispondiamo?

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