Laurids Gallée: «Seguo il materiale, non la funzione»

Foto Titia Hahne

C’è una poesia sottile negli oggetti di Laurids Gallée. Una tensione tra la solidità della materia e la leggerezza del gesto che li ha generati. Lampade che sembrano sculture, superfici che raccontano storie senza bisogno di parole. Nato a Salisburgo nel 1989, Gallée è cresciuto in una famiglia di artisti, ma inizialmente ha cercato di prenderne le distanze. Solo più tardi ha capito che l’arte era parte di lui, come una lingua madre che si impara senza accorgersene. La sua pratica nasce dall’incontro tra la sperimentazione materica e l’eredità culturale. La resina e il legno sono i suoi materiali prediletti, e li lavora come se fossero pigmenti: la resina gli consente di scolpire la luce, il legno diventa tela per disegni, trame e storie. Ogni pezzo è frutto di un processo, spesso lungo e meticoloso, dove la funzione dell’oggetto diventa secondaria rispetto alla sua carica simbolica, estetica, sensoriale.
Dal suo studio a Rotterdam, fondato nel 2017, Gallée sviluppa una ricerca che sfida le categorie tradizionali del design: artigianato o arte? Oggetto o scultura? Da collezione o industriale? Le sue opere si situano in un territorio ibrido, dove il processo conta più del prodotto. Lo abbiamo intervistato per scoprire da dove nasce la sua visione, come lavora con i materiali e quali sono i suoi obiettivi futuri.

Da dove nasce il tuo interesse per le arti manuali e il design fatto a mano?
Sono cresciuto circondato dall’arte: mio padre lavorava tra pittura e progetti nello spazio pubblico, mia madre si dedicava alla pittura e alle installazioni. L’arte è intrecciata nella mia famiglia: mio zio, mia zia e mio nonno erano tutti artisti. All’inizio rifiutavo tutto questo, mi sembrava strano, fuori dagli schemi; la mia prospettiva è cambiata crescendo. Il mio primo vero legame con l’arte è avvenuto attraverso l’amore per l’artigianato.
Un momento decisivo è stato scoprire i mobili dipinti a mano nella casa di campagna di mia nonna. Questi pezzi da fattoria della Bassa Austria del XVII e XVIII secolo, ornati di immagini religiose e decorazioni intricate, quasi ingenue, hanno lasciato una profonda impressione su di me. Comprendere la loro artigianalità e il loro significato culturale mi ha aperto gli occhi. Quell’apprezzamento, radicato nelle tradizioni dell’Austria settentrionale e della Boemia meridionale, ha senza dubbio plasmato il mio percorso artistico.

Dopo gli studi in antropologia e la Design Academy Eindhoven, quale percorso hai seguito?
Dopo l’Accademia, ho lavorato per cinque anni come maker in uno studio che realizzava pezzi a base di resina per artisti e designer. È stata una fase fondamentale: ho imparato a conoscere la materia, le sue possibilità, le sue regole. Solo due o tre anni dopo la laurea ho iniziato a sviluppare un linguaggio mio, parallelamente al lavoro per gli altri. Quella fase di produzione intensa mi ha insegnato che imparare facendo è il modo più diretto per definire la mia voce. Questo periodo di creazione ha definito in ultima analisi sia il mio approccio all’artigianato sia il mio linguaggio creativo in evoluzione.

Il tuo lavoro si basa molto sul processo creativo e di ricerca.
Il mio lavoro è profondamente radicato nei materiali stessi. Ciò è particolarmente vero per i miei pezzi in resina, ma altrettanto per i miei lavori in legno. Quando dico che la mia pratica è definita dal materiale, intendo che mi ci impegno direttamente. Ci passo del tempo, cercando di comprenderne le proprietà estetiche e tecniche attraverso l’esperienza pratica: come si comporta strutturalmente, come la luce si muove attraverso la materia, come le diverse condizioni la influenzano. Il mio lavoro è plasmato da queste esplorazioni, sempre in movimento attraverso la sperimentazione. Questo processo è ciò che ha portato alla mia serie di sculture luminose, con ogni pezzo che si basa sul precedente, spingendo gradualmente il materiale più avanti.
Lo stesso vale per la lavorazione del legno. Sebbene incorpori i miei disegni in una tecnica simile all’intarsio, questa tecnica stessa continua a evolversi. Ciò che creo oggi è diverso da ciò che ho fatto quattro anni fa e molto diverso da quando ho iniziato. Il mio approccio è sempre in movimento, guidato dalla curiosità, dall’apprendimento e da un continuo processo di perfezionamento.

Laurids Gallée
Foto Mathijs Labadie

In un’epoca ancora molto legata alla funzione, tu sembri andare nella direzione opposta.
Sì, direi che la funzione è l’ultimo dei miei pensieri. La vedo più come una tela, un archetipo che fornisce un punto di partenza, ma non un principio guida. Non progetto oggetti da usare, progetto forme da esplorare. La funzione, se c’è, è solo un punto di partenza. Ciò che conta per me è il processo, l’imprevisto, il risultato che sorprende anche me. Se qualcuno legge sotto una mia lampada o la mette su un piedistallo mi fa piacere. Ma non è quello lo scopo. Ciò che conta per me è l’immagine finale, il modo in cui l’opera esiste in un ambiente neutro.

Ti identifichi nel mondo del collectible design?
Non amo molto le etichette, ma se proprio dovessi scegliere, sì, mi avvicino più al collectible che all’industrial design. Però non voglio limitarmi a una sola disciplina: il mio prossimo progetto potrebbe essere una fotografia o un film. Credo che oggi ci sia molta fluidità tra le discipline, e mi piace così.

Ci sono designer, artisti o architetti che ti ispirano?
Non prendo ispirazione diretta da altri designer o architetti. Seguo di più quello che succede nell’arte contemporanea, nella pittura, nella scultura. Ma il mio approccio è radicato nel materiale stesso e dove mi porta, non nelle tendenze. Credo che un lavoro nato da un processo autentico abbia una forza diversa.

Sei nato in Austria, vivi e lavori a Rotterdam. Quanto conta per te questa dimensione internazionale?
Non mi considero veramente austriaco, non in senso stretto. Certo, sono nato e cresciuto lì, ma a questo punto, trascorro così tanto tempo in diversi Paesi in tutta Europa che mi sento a casa ovunque. Non mi sento uno straniero in nessuna parte d’Europa; al contrario, mi vedo come europeo e questa identità è importante per me. Nutro un profondo apprezzamento per la diversità delle culture europee, le loro stranezze, la loro gente e i loro approcci creativi unici. Si possono ancora vedere differenze distinte tra loro, anche se questi confini hanno iniziato a confondersi nell’ultimo decennio. Trovo affascinante questa evoluzione. Questa graduale formazione di un linguaggio creativo europeo condiviso è qualcosa che apprezzo molto, è qualcosa che mi piace davvero vedere.

Ci puoi anticipare i tuoi prossimi progetti e obiettivi?
Il mio grande sogno è costruire una casa: una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale. Vorrei disegnarne ogni singolo elemento: l’architettura, l’arredo, gli oggetti. Tutto il mio lavoro, alla fine, va in quella direzione.

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