Ipnotica, ambigua, erotica e noir, la pittura di Leonor Fini è inafferrabile. Lo era persino per lei, che diceva di essere tormentata dalle sue creazioni: voleva capire da dove venissero, ma non ci riusciva mai. E come tutta la grande arte, infatti, anche la sua è una magnetica illusione, ma anche un’insidia, come tutto ciò che non conosciamo davvero.
D’altronde Leonor Fini ha a che fare con l’elusione fin da bambina: nasce nel 1907 a Buenos Aires, ma si trasferisce dopo pochi mesi a Trieste, città della madre. Dopo la violenta separazione dei genitori il padre vuole tornare in Argentina e tenta di rapire la piccola Lolò, e allora la madre per nasconderla meglio comincia a travestirla da maschietto. Questo non solo accenderà in lei un’affinità con maschere e travestimenti, ma la porterà anche a coltivare l’idea di una rivolta continua contro la condizione femminile imposta dalla società patriarcale e a favore di nuovi modelli di famiglia e di lettura del genere, tutte istanze che poi svilupperà nel suo lavoro.

È un trauma però a far scoccare la scintilla dell’arte: da giovanissima è costretta a rimanere bendata e al buio per due interminabili anni, ed è proprio dopo questo periodo che si immerge nella pittura. «I miei occhi gridavano vendetta», dirà. Proprio grazie a questo impeto e forse a questo bisogno di recuperare tutto quel tempo passato senza vedere, Leonor Fini fa esplodere mondi sommersi. Io sono Leonor Fini è la grande retrospettiva, curata da Tere Arcq e Carlos Martín, che le dedica Palazzo Reale di Milano fino al 22 giugno con oltre 100 lavori che mostrano la sua produzione nella pittura, nella letteratura, nel design, nel teatro e nella moda, nel segno di un abbattimento del confine tra queste discipline che avrebbe fatto scuola.

Nel 1931 si trasferisce a Parigi e, nonostante la vicinanza al surrealismo, il suo stile si fa più libero. Grandi intellettuali e artisti come Alberto Moravia ed Elsa Morante, Giorgio de Chirico e Jean Cocteau la sostengono nel corso della sua carriera e a Palazzo Reale si possono vedere alcuni dei suoi capolavori che anche nel colore hanno qualcosa di pulp, ricordando a volte Hieronymus Bosch e altre favole misteriose e colte. La sfinge, nel suo essere ibrida, mutante e potente, racchiude forse l’identità di Leonor Fini e infatti ricorre o viene evocata spesso, come nell’Autoritratto con civetta, essere notturno e libero che forse è ciò che in natura più si avvicina alla sfinge, ma anche alla sfuggente e a tratti occulta personalità di questa grande artista.
dove: Palazzo Reale, piazza del Duomo 12
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