Leonor Fini, l’artista ribelle che trasformò il trauma in visioni oniriche

Autoritratto con cappello rosso, 1968. Foto Leonor Fini Estate, Paris

Ipnotica, ambigua, erotica e noir, la pittura di Leonor Fini è inafferrabile. Lo era persino per lei, che diceva di essere tormentata dalle sue creazioni: voleva capire da dove venissero, ma non ci riusciva mai. E come tutta la grande arte, infatti, anche la sua è una magnetica illusione, ma anche un’insidia, come tutto ciò che non conosciamo davvero.

D’altronde Leonor Fini ha a che fare con l’elusione fin da bambina: nasce nel 1907 a Buenos Aires, ma si trasferisce dopo pochi mesi a Trieste, città della madre. Dopo la violenta separazione dei genitori il padre vuole tornare in Argentina e tenta di rapire la piccola Lolò, e allora la madre per nasconderla meglio comincia a travestirla da maschietto. Questo non solo accenderà in lei un’affinità con maschere e travestimenti, ma la porterà anche a coltivare l’idea di una rivolta continua contro la condizione femminile imposta dalla società patriarcale e a favore di nuovi modelli di famiglia e di lettura del genere, tutte istanze che poi svilupperà nel suo lavoro.

Leonor Fini, l’artista ribelle che trasformò il trauma in visioni oniriche
Sbrigati, sbrigati, sbrigati, le mie bambole stanno aspettando!, 1975. Foto Leonor Fini Estate, Paris

È un trauma però a far scoccare la scintilla dell’arte: da giovanissima è costretta a rimanere bendata e al buio per due interminabili anni, ed è proprio dopo questo periodo che si immerge nella pittura. «I miei occhi gridavano vendetta», dirà. Proprio grazie a questo impeto e forse a questo bisogno di recuperare tutto quel tempo passato senza vedere, Leonor Fini fa esplodere mondi sommersi. Io sono Leonor Fini è la grande retrospettiva, curata da Tere Arcq e Carlos Martín, che le dedica Palazzo Reale di Milano fino al 22 giugno con oltre 100 lavori che mostrano la sua produzione nella pittura, nella letteratura, nel design, nel teatro e nella moda, nel segno di un abbattimento del confine tra queste discipline che avrebbe fatto scuola.

Leonor Fini, l’artista ribelle che trasformò il trauma in visioni oniriche
Autoritratto con civetta, 1936. Foto Leonor Fini Estate, Paris

Nel 1931 si trasferisce a Parigi e, nonostante la vicinanza al surrealismo, il suo stile si fa più libero. Grandi intellettuali e artisti come Alberto Moravia ed Elsa Morante, Giorgio de Chirico e Jean Cocteau la sostengono nel corso della sua carriera e a Palazzo Reale si possono vedere alcuni dei suoi capolavori che anche nel colore hanno qualcosa di pulp, ricordando a volte Hieronymus Bosch e altre favole misteriose e colte. La sfinge, nel suo essere ibrida, mutante e potente, racchiude forse l’identità di Leonor Fini e infatti ricorre o viene evocata spesso, come nell’Autoritratto con civetta, essere notturno e libero che forse è ciò che in natura più si avvicina alla sfinge, ma anche alla sfuggente e a tratti occulta personalità di questa grande artista.

dove: Palazzo Reale, piazza del Duomo 12

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