Varcata la soglia, le note di una bossa nova accompagnano ogni passo. È la colonna sonora della casa del fotografo Fabrizio Ferri e della moglie Geraldina Polverelli. «Nella bossa nova c’è l’acqua, la dolcezza, il garbo. Tre elementi che abbiamo cercato e voluto», racconta Ferri, lo sguardo rivolto oltre il fiume, verso Manhattan. L’attico a Williamsburg è un teatro di riflessi. «Amiamo questo angolo del salotto, affacciato sul ponte. La luce è viva, trasforma tutto. Pioggia o sole, la casa cambia ogni momento della giornata, è un’opera in movimento», aggiunge la moglie, storica dell’arte e collezionista.
Vivono e lavorano insieme dal 2011, la luce definisce il loro linguaggio. «È il mio strumento narrativo. Per Geraldina la chiave per leggere un dipinto. Segna il nostro modo di vedere il mondo», continua Ferri, fondatore degli studi fotografici Superstudio a Milano nel 1983, Industria nel Meatpacking District di New York nel 1991 e Industria Williamsburg nel 2016. Le pareti nere della loro penthouse assorbono e riflettono la luce, disegnano ombre e contrasti. Come in una fotografia.
Oltre alla luce anche l’acqua è un elemento importante di questa casa affacciata sull’East River.
Geraldina: L’acqua è il tempo, il movimento continuo. Ci ricorda che Manhattan è un’isola. Avere il fiume davanti agli occhi ci riporta con i piedi per terra. In una città verticale come New York, lo sguardo, tra i grattacieli, è sempre rivolto verso l’alto. Ma l’acqua guida verso l’orizzonte.
Per anni avete vissuto nel grattacielo di Frank Gehry a Lower Manhattan, come siete arrivati a questo attico a Williamsburg?
Fabrizio: Una folgorazione. Era in costruzione, non era nemmeno sul mercato. Nel 2016 stavamo seguendo i lavori di ristrutturazione degli studi Industria a Williamsburg. Una mattina dopo aver fatto colazione da Aurora, il ristorante all’angolo, guardavamo questo edificio, piaceva a entrambi, ma non ne avevamo mai parlato. Uscendo, mentre aspettavamo al semaforo, un enorme banner è sceso da un balcone: “Apartment available”. Ci siamo guardati, siamo entrati e l’abbiamo comprato.
Come lo avete trasformato?
Geraldina: Fabrizio ha una visione ben precisa degli spazi. Dopo Roma, Milano e Pantelleria sapevo che non avremmo collaborato con un architetto. Non avevo dubbi: doveva essere Fabrizio a guidare il progetto. Ci siamo immersi in ogni dettaglio, dagli interruttori alla scelta del granito, fino alla disposizione delle sculture. Non ci sono lampade sparse in giro, la luce è sempre soffusa.
Quali sono state le scelte per rendere questa la vostra casa?
Fabrizio: Abbiamo deciso di usare il nero al piano inferiore per creare un’atmosfera più profonda, mentre sopra abbiamo prediletto toni chiari per dare leggerezza e luminosità. Una scelta che proviene dal mio approccio fotografico, dove il contrasto chiaro scuro è fondamentale.
Un’abitazione pensata come una fotografia in bianco e nero. C’è qualche pezzo che la definisce?
Geraldina: Giochiamo più sui pieni e sui vuoti, sulla luce e sull’ombra piuttosto che sul contrasto bianco nero. La scultura-dipinto di Louise Nevelson è parte di questa dinamica. Abbiamo comprato l’opera quasi per caso, durante un’inaugurazione alla Pace Gallery. Era come se quella nicchia fosse già lì, in attesa del suo arrivo.
Questa è anche la prima casa dove Fabrizio espone una sua fotografia, giusto?
Fabrizio: Sì, ed è stata Geraldina a volerla. Una testa di marmo del 58 d.C. attribuita a Giulio Cesare. Fu ritrovata in un pozzo a Pantelleria e mi chiesero di fotografarla. Inizialmente risposi di no, non mi sembrava un lavoro per me. Ma insistevano. L’ho adagiata nell’acqua e proprio in quel momento, una nuvola carica di sabbia ha oscurato il sole e ha trasformato tutto color ocra. Ho scattato la foto esattamente così com’era. Un dipinto.

La casa è anche un luogo di lavoro?
Geraldina: È diventata la nostra piccola Industria. Non solo studio fotografico, ma spazio creativo aperto a progetti in evoluzione. E Orso, nostro figlio di 7 anni, è parte di tutto questo. Ama partecipare a quello che facciamo, che sia cucinare il sabato sera – la pizza con papà è ormai un rito – o vivere gli interni come spazio di studio e lavoro. Quando arriva un bambino, la casa diventa il centro della vita.
E qui nasce anche il libro ‘Fin qui. Fotografia di una vita’.
Fabrizio: È un racconto sincero della mia vita, con tutti i suoi chiari e scuri. Dalla prima fotografia che ho scattato per fare un favore a un amico, a una manifestazione politica alla Basilica di San Giovanni a Roma, alle foto di street style a Londra dove punk e mods entravano nell’obiettivo, alla prima copertina per Vogue Italia.
Oggi con un panorama così saturo di immagini, un fotografo come distingue il suo linguaggio?
Fabrizio: Una volta si diceva “speriamo che venga”. Oggi tutti fanno foto perfette. L’importante invece è sbagliare le foto, perché è solo attraverso gli errori che si cresce e ci si avvicina a quella visione unica che definisce un fotografo.
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