Paola Antonelli: «Capire l’importanza del design significa essere cittadini più completi»

Il design può essere un catalizzatore di progresso, soprattutto in tempi di grandi cambiamenti sociali e culturali. Può trasformare i nostri comportamenti, ridefinire le nostre abitudini, migliorare la nostra società. È la tesi alla base di Pirouette: Turning Points in Design, mostra in programma fino al 18 ottobre al MoMA di New York che raccoglie oltre cento oggetti, creati dal 1930 a oggi, che più di altri hanno avuto un impatto profondo sulle nostre vite.

Si va da pezzi come la cassettiera You Can’t Lay Down Your Memory di Tejo Remy (1991), la tazza da caffè per astronauti di Don Pettit (2008) o il Candy Cube di Sabine Marcelis (2014), che pur non avendo mai trovato o cercato un ampio mercato, hanno avuto una forte influenza su altri designer, a invenzioni rivoluzionare come l’Apple Macintosh 128K (1983), il Sony Walkman (1979), il Post-it di Art Fry e Spencer Silver (1977) o persino la linea di intimo e abbigliamento modellante Spanx di Sara Blakely (2000). 

Tra i progetti più recenti, il gioco Multiform con il set di uniformi sportive (2019) di Gabriel Fontana, che promuove un nuovo tipo di spirito di squadra, ma anche le Emoji di Shigetaka Kurita o le rappresentazioni visive di dati complessi, come la Global Temperature Spiral del climatologo Ed Hawkins (2018, in corso).

Ne abbiamo parlato con la curatrice Paola Antonelli.

In che modo sono stati in scelti gli oggetti esposti in mostra? C’è un criterio particolare che ha guidato la selezione di questi progetti che sono considerati dei “punti di svolta” nel design?

Il criterio è proprio quello di mostrare oggetti che hanno avuto un impatto profondo sulla società, o direttamente oppure sul mondo del design e poi in un secondo momento sulla società. Ovviamente questo criterio potrebbe essere applicato a moltissimi oggetti che sono nella collezione del MoMA, quindi ne abbiamo scelti alcuni che non si erano visti da tempo o che risultavano inaspettati ma è un criterio che guida sempre le nostre scelte.

Effettivamente il fatto di fare parte della collezione del MoMA significa in qualche modo passare alla storia.

Sì ma non è tanto questione di passare storia, si tratta piuttosto dell’importanza del design. Quello che cerchiamo di fare sempre con le mostre, e quindi anche con Pirouette, è di comunicare al mondo l’importanza del design. In un posto come l’Italia è più comprensibile, la gente è più abituata all’importanza del design, negli Stati Uniti non c’è la stessa dimestichezza con il design quindi molto spesso lo scopo delle mostre che facciamo è proprio questo. È quello che abbiamo voluto esprimere nel testo d’introduzione: il design è importante e la gente dovrebbe iniziare a rendersi conto che capire l’importanza del design è un requisito per essere cittadini più completi.

In Italia il design ha un peso molto importante nella nostra cultura ma è anche vero che molto spesso la parola design viene usata come sinonimo di arredamento, mentre significa tante altre cose, soprattutto oggi.

Posso essere d’accordo ma anche non d’accordo con te. È vero, si sente parlare del Made in Italy ‘ad nauseam’, si parla tanto del Salone del Mobile eccetera eccetera, però gli italiani tendono ad avere una specie di familiarità con il design inteso come produzione industriale, con gli oggetti. Per esempio uno degli oggetti in mostra è la Bialetti e penso che 8 famiglie italiane su 10 abbiamo una Bialetti a casa. È proprio una cosa di routine. Ieri parlavo con mio marito che è americano e che una volta si trovava a Mestre e mi ricordo che tanti anni fa mi scrisse dicendomi “ma come mai qui a Mestre ci sono tutti questi negozi con oggetti di design e lui si riferiva appunto a Bialetti e altre cose del genere. La realtà è che il “buon design” in Italia è una cosa normale, fa parte della normalità e anche questo è un concetto molto interessante, proprio perché spesso non ci si rende conto di cosa sia design.

In mostra ci sono oggetti che siamo abituati ad avere tutti i giorni sotto gli occhi, come appunto una moka, ma anche progetti come il logo I Love New York o il gioco Multiform. Quando oggi il design è legato alla progettazione di un oggetto e quanto invece si sta spostando verso altri tipi di progettazione, dai servizi al graphic design? In che modo la selezione degli oggetti in mostra rispecchia l’evoluzione del design oggi?

Sì ci sono tantissime altre forme di design che noi spingiamo molto perché vogliamo che la gente ne comprenda l’importanza, come ad esempio le visualizzazioni di Federica Fragapane

C’è qualche esempio che vuoi citare per dimostrare che cosa oggi si avvicina di più alla direzione che sta prendendo il design?

Non è solo oggi, è così da sempre, le varie forme di design sono le stesse da sempre. La visualizzazione dei dati esiste dai tempi dei geroglifici. Non ci sono forme nuove, ci sono contenuti nuovi. Per esempio in mostra ci sono due opere – è buffo chiamarle opere ma sono opere – di Ed Hawkins, un professore di geografia e di climatologia all’Università di Reading nel Regno Unito, che ha creato questo modo di far capire in maniera chiarissima e formalmente elegante che le temperature del pianeta Terra si stanno innalzando in maniera pericolosa. Abbiamo due esempi: la spirale delle temperature e le “warming stripes”, in italiano le strisce di riscaldamento, che sono posizionate di fronte al giardino delle sculture del MoMA quindi in quest’estate chiunque si siederà nel giardino vedrà questo tipo di visualizzazioni. Oppure nel caso di Federica Fragapane abbiamo due esempi: uno è sulla spazzatura spaziale, quindi tutti gli oggetti che sono in orbita e che non sono più in uso, che magari poi alla fine cadono sulla terra, se ne è parlato ultimamente, invece l’altra visualizzazione è sugli attivisti per l’ambiente che sono stati uccisi in Brasile perché difendevano la foresta Amazzonica. I contenuti che sono molto più legati all’ambiente o all’idea del design per interspecie che non prima, però le forme sono uguali da sempre. Forse perché ho avuto un’educazione al Politecnico di Milano che era molto onnivora, però da sempre per me il design è stato anche grafica, è stato anche alimentazione, infrastruttura, sistemi, per cui non è una questione proprio di oggi. I contenuti sono diversi.

L’intelligenza artificiale sta prendendo sempre più piede in ogni settore, compreso quello della creatività. Come sta cambiando il ruolo dei designer, sempre in riferimento all’impatto del loro lavoro sulla società, e il modo di svolgere la professione?

L’intelligenza artificiale sta cambiando tutto già da anni, adesso è più disponibile alle persone normali come noi quindi ce ne accorgiamo ma in realtà è stata applicata già da tantissimo tempo. Ci sono tantissimi esempi, la sfera dell’intelligenza artificiale nella creatività è enorme dal punto di vista delle applicazioni, anche dal punto di vista dell’etica, c’è tantissimo di cui parlare. Ti posso dire come l’abbiamo utilizzata al MoMA dal punto di vista curatoriale. Ci sono due esempi che vorrei darti, uno è curato da me, l’altro no. Il primo, curato da me insieme a Michelle Kuo, è l’installazione (finita l’anno scorso) di Refik Anadol, un artista che da sempre si è occupato di tecnologia avanzata; ha preso tutti i metadati della collezione del MoMA e ha creato un’opera che è stata installata per un anno nell’atrio del MoMA in cui l’intelligenza artificiale che lui aveva programmato con il suo studio cercava negli spazi interstiziali tra le varie opere della collezione edava un’interpretazione personale di quello che avrebbe potuto riempire questi spazi liminali. È un po’ complicato da spiegare però era molto interessante perché dava un’interpretazione dell’intelligenza artificiale della collezione del MoMA ed era generativa quindi per un anno ci ha dato tutti i suoi pensieri, tutti i suoi movimenti all’interno della collezione. Un altro esempio che invece è stato curato dal mio collega Paul Galloway è la mostra di Norman Teague, un designer di Chicago che ha utilizzato Firefly di Adobe per reinterpretare alcuni oggetti che sono nella collezione del MoMA con delle condizioni diverse, pensando a una storia del mondo che ha una diversa articolazione dal punto di vista della giustizia, dei diritti civili etc. È una mostra interessantissima che è ancora adesso in corso.

Per chiudere, ci sono dei progetti in particolare che hai visto di recente che hanno suscitato in te quella sensazione di scoperta e che a tuo avviso incarnano l’idea del design come motore di cambiamento e punto di svolta?

Tutti i giorni, è incredibile quanto siano attivi i designer in questo momento. Ce ne sono tantissimi. Per esempio, appena ho intervistato, per Design Emergency, il podcast che faccio con Alice Rawsthorn, una designer finlandese che vive in Australia, a Townsville nel Queensland, quindi è in contatto diretto con la barriera corallina. I suoi clienti sono i coralli. Lavora con una grossa squadra di scienziati, di antropologi, di studiosi di sistemi e si occupano di salvare ma anche di ricostruire la barriera corallina, con degli impianti e lei pensa alla forma e ai materiali da usare perché questi impianti possano aiutare a ricostruire la barriera corallina. Questo solo per darti un esempio. I designer si occupano di contesti che noi neanche ci immaginiamo ed è bellissimo rendersene conto.

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