Paolo Deganello: «Volevamo cambiare il mondo»

Foto Matteo Cirenei

«Non ho un’idea di abitare, io abito. È una cosa ben diversa». Paolo Deganello, 85 anni il prossimo settembre, trasforma la domanda in manifesto. «Abitare è una pratica quotidiana, matura in rapporto con gli spazi, con gli ambienti, con le esigenze e le altre persone. Il resto è letteratura».

Il mitico fondatore di Archizoom è asciutto, senza fronzoli. Radicale, come sempre. Dopo il cancello, nel quartiere residenziale di via Tiepolo, imboccando il primo viottolo a sinistra, l’architetto aspetta avvolto nella sciarpa viola davanti alla porta a vetri colorati dell’ingresso, tra le assonanze Liberty della facciata. «Abito costruendo ogni giorno la miriade di cose che mi piace fare e con chi mi piace farle», spiega salendo le scale, con lentezza.

Il quartiere meneghino, non lontano da Città Studi, è residenziale. Il complesso di villette a schiera, 120 metri quadrati ciascuna disposti su tre livelli, sono state costruite negli anni Venti. «Il progetto di edilizia economica popolare faceva parte del piano Giolitti. È sempre stato sottovalutato, le villette costavano pochissimo. All’epoca ogni casa aveva un suo orto, durante la guerra c’era addirittura chi coltivava il grano, perché il problema era sopravvivere. Poi gli spazi si sono convertiti in giardini, il nostro lo cura mia moglie».

Dalla finestra, vicino al camino e al divano disegnato nel ’67 in edizione limitata Superonda Spots, si intravede una rosa che germoglia alla fine dell’inverno. «La generazione dei miei figli, che adesso è tra i 40 e i 50 anni, ha giocato in questi luoghi. Qui intorno, nelle stradine di allora, c’erano molti bambini che si battevano per farsi restituire il pallone caduto nel cortile dell’inquilino accanto. Perché questo è un quartiere che si vive, ha delle particolarità che definiscono una modalità dell’abitare. Non è un condominio verticale, ma orizzontale. I rapporti si costruiscono, si consolidano, si scoprono anche in queste aree verdi. Esiste addirittura una competizione, ogni anno c’è una festa per premiare il giardino più bello. A seconda della storia che una famiglia ha avuto, e di quella che è disposta a costruire, si vive in maniera diversa».

Accanto all’abitazione, lo studio con una biblioteca infinita di libri fino al soffitto, tappezzato di fotografie, disegni e ritratti infantili con barba e occhiali, dediche e auguri di compleanno. La lampada Aurora disegnata per Venini illumina la stanza. Svetta un gorilla giocattolo, richiamo alla famosa copertina che Alessandro Mendini scelse di dedicare alle utopie e alle visioni del Design Radicale nel 1972.

«In quegli anni volevamo cambiare il mondo. Una volta decidemmo di portare in giro per tutta Roma, con un camioncino, la poltrona Aeo che disegnai per Cassina. La scarrozzammo in piazze, strade, volevamo che le persone la provassero, la sperimentassero e ci dessero i loro pareri. La portammo fino allo zoo, e tramite un amico, la piazzammo nella gabbia di un gorilla che però non se la filò neanche un secondo. Ora ne tengo diverse copie in tutta la casa».

Deganello, che oggi insegna Eco Design all’ISIA di Firenze, mostra una fotografia del tempo in bianco e nero, mentre la voce si intona al cigolio della sedia. «Questi rumori sono errori del progettare, il mito della perfezione è un atto di violenza dovuta alla razionalità produttiva. Perché si progetta?», si chiede retorico. «Perché si vuole costruire un messaggio, si vuole comunicare una proposta dell’abitare. Quindi è fondamentale che ci sia una motivazione politica nel proprio operare».

Paolo Deganello: «Volevamo cambiare il mondo»
Foto Matteo Cirenei

Nello studio, appesa al soffitto, una gabbia regalata da un giovane militante ungherese tenuto nascosto quaranta anni fa, per tre mesi, nella soffitta di casa a Firenze. «Quando la situazione si sbloccò mi regalò questa gabbietta vuota, ci misi dentro un gatto di Venini a cui sono molto legato. In questo studio, comprato in un secondo momento rispetto alla casa di fianco, mi porto dietro molte storie personali».

Da una parte, gli ambienti in cui vivere pieni di prototipi, lampade e sedute, mobili finiti in produzione e altri mai realizzati, insieme ad antichi mobili di famiglia e pezzi firmati dal figlio Carmine. Dall’altra, nella villetta di fianco, lo spazio dove progettare. «Sto donando tutti i miei disegni, finirò a maggio, ma questo luogo lo si spoglia solo il giorno in cui sarò crepato. Fino a che resisto io, questa stanza del pensiero rimane».

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