Tra le strade di Harlem con una guida d’eccezione

Foto Paolo Leone per Living

Dice sempre di essere una island girl, una ragazza dell’isola. Spesso, vedendola con le trecce o i dreadlock, la gente le chiede: «Di quale isola sei?». La risposta di Sade Lythcott, CEO del National Black Theatre di New York, è immediata: «Harlem. Questo quartiere mi ha cresciuta come un’isola, un villaggio».

Lythcott, nata tra la 137esima Strada e Malcolm X Boulevard, è una voce instancabile a sostegno della comunità afroamericana nel mondo dell’arte. Presidente della Coalition of Theaters of Color e membro del consiglio della Brooklyn Academy of Music (BAM), è impegnata a costruire spazi culturali più inclusivi.

«Per quanto Harlem sia diventata una meta internazionale, per me resta un luogo dell’anima. Con queste vie nutro la relazione più lunga e complicata che abbia mai avuto», svela.

La seguiamo sulla 125esima Strada, attraverso Martin Luther King Jr Boulevard, in un viaggio personale, dove in ogni angolo passato, presente e futuro si intrecciano. I ragazzi con lo skateboard. Chi balla breakdance sui marciapiedi. Harlem è un punto d’incontro, un incrocio di esperienze. «È indissolubilmente legato alla cultura afroamericana. Una memoria collettiva che vibra nei murales, sui marciapiedi, dalle note che escono dai club», riprende Lythcott.

Sulla 166esima sembra di essere in una piccola Lagos: si può passeggiare nel mercato africano Shabazz e sentire parlare in swahili, yoruba, kirundi e altri dialetti nilo-sahariani. Tessuti wax, cesti intrecciati, gioielli senegalesi, ogni banco racconta un pezzo d’Africa, dal Ghana al Mali, dalla Nigeria al Senegal.
Poi, basta scendere qualche isolato e arrivare sulla 125esima per cambiare scena. Qui, tra brownstone e istituzioni culturali, prende forma il Rinascimento di Harlem.

Tra le strade di Harlem con una guida d’eccezione
Foto Paolo Leone per Living

Sulla stessa strada si affacciano l’Apollo Theater, 90 anni di storia, lo Studio Museum e il National Black Theatre, entrambi attivi da oltre mezzo secolo.
«Se chiudo gli occhi, immagino mia madre, Barbara Ann Teer, artista visionaria fondatrice del National Black Theatre con la poetessa attivista Maya Angelou, mentre organizzano incontri per strada», racconta Lythcott camminando a passo deciso.

Il suo cuore resta ancorato a un’eredità culturale profonda, che va protetta, ma anche proiettata in avanti. In questo impegno non è sola. Michelle Ebanks, CEO dell’Apollo, ha appena inaugurato il Victoria Theater, segnando la prima espansione nella storia del leggendario palco di Harlem.

Thelma Golden, direttrice dello Studio Museum, sta guidando un ambizioso progetto da 300 milioni di dollari: il nuovo edificio aprirà a fine 2025. Progettato dall’architetto ghanese David Adjaye in collaborazione con Cooper Robertson, il museo rifletterà appieno i valori che da sempre guidano l’istituzione: fierezza e celebrazione dell’identità culturale afroamericana.

La facciata, un collage di volumi sovrapposti, crea un’interconnessione visiva con la strada, mentre all’interno, una galleria illuminata dall’alto richiama l’atmosfera delle chiese del quartiere. All’ingresso, una serie di porte vetrate si apre su gradini che evocano gli stoop dei brownstone: una scalinata rovesciata pensata per accogliere incontri, performance o semplicemente momenti di pausa.

«La cultura nera di oggi non è nostalgia, è materia viva, parla al presente e immagina il futuro», dice Sade Lythcott, mentre arriviamo davanti al nuovo edificio del National Black Theatre, fondato nel 1968 dalla madre Barbara Ann Teer.

Tra le strade di Harlem con una guida d’eccezione
Foto Paolo Leone per Living

«Quando mia madre acquistò l’intero isolato, cominciò a immaginare un ecosistema in cui gli artisti potessero vivere e lavorare. Come figlia, il dono più grande che potessi farle è realizzare la sua visione attraverso una lente contemporanea».

Il complesso, in costruzione, svetta per 21 piani in mattoni rosa. Progettato dall’architetta messicana Frida Escobedo, in collaborazione con Handel Architects e sviluppato da Ray e LMXD, l’edificio sarà un centro culturale e abitativo. Insieme al teatro ospiterà oltre duecento appartamenti a prezzi accessibili.

«Non volevo costruire un edificio nuovo, ma un edificio vero», tiene a precisare Lythcott mentre ci guida tra le impalcature del cantiere. «Volevo che l’architettura parlasse la nostra lingua, riflettesse la nostra missione, onorasse ciò che era venuto prima». Il progetto integra simbolismi dell’Africa occidentale: il color rosa aranciato richiama il boschetto sacro di Osun-Osogbo in Nigeria, le onde, nella disposizione dei mattoni, evocano il viaggio transatlantico del popolo africano. Il pattern dialogherà con l’intervento site-specific nella facciata dell’artista afroamericano Sanford Biggers.

«Il mio è un patchworking concettuale», racconta Biggers dal suo studio di Harlem. La sua pratica fonde postminimalismo, Dada, arte africana, filosofia buddhista e memorie personali, «desidero sfidare le narrazioni ufficiali per costruire una futura etnografia», continua l’artista.

Dal terrazzo del nuovo National Black Theatre, Sade Lythcott posa lo sguardo sulla sua Harlem, fino allo skyline di Midtown Manhattan: «Uno dei miei posti preferiti è Morningside Park, insieme a Saint Nicholas Park è tra i luoghi più democratici del quartiere: ci trovi persone di ogni età e provenienza. Fare un picnic è un modo semplice per assorbire la cultura, connettersi alla comunità».

Un’altra tappa è lo Schomburg Center for Research in Black Culture, sulla 135esima. La più grande biblioteca di ricerca sulla cultura nera degli Stati Uniti.

Tra i suoi posti del cuore ci sono il ristorante francese Maison Harlem – «è lì che ho conosciuto mio marito» – e Nilu, una boutique su Lenox Avenue fondata da Katrina Parris, che ha iniziato la sua attività vendendo fiori in un minuscolo appartamento sulla 121esima Strada.
Per gli appassionati di cappelli, imperdibile è FlameKeepers Hat Club, la boutique di Marc Williamson. Un indirizzo da scoprire magari dopo aver visto Superfine: Tailoring Black Style, la mostra in corso al Costume Institute del Metropolitan Museum, che racconta l’evoluzione dello stile maschile afroamericano, dai dandy ai designer contemporanei.

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Perché lo stile, nella cultura Black, è sempre stato un linguaggio.

«Mia mamma amava usare James Brown come esempio del ‘segreto dell’anima’», riprende Sade Lythcott. «Diceva: quando James Brown si esibisce, non importa se è in Giappone o in Scandinavia, la gente impazzisce, urla, lancia i reggiseni sul palco. È l’esperienza nera, quella frequenza vibratoria che risuona dentro, con le persone di tutto il mondo».

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