In una Milano fredda, ma non glaciale, da venerdì 19 dicembre due alti battenti in legno ascendono in Piazza Filangieri, a pochi passi dall’ingresso di San Vittore: la storica Casa Circondariale milanese ancora una volta si è aperta alla città per inaugurare la sua Porta della Speranza. E non poteva scegliere momento dell’anno più significativo, se non la settimana di Natale, per accarezzare i cuori dei suoi abitanti. Dentro e fuori le mura.

Firmata da Michele De Lucchi, l’opera è la prima di una rosa di otto, che il progetto collettivo ‘Le Porte della Speranza’, promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede con DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Fondazione Cariplo e il Comune di Milano, realizzerà nel 2026. Con la regia di Davide Rampello, ciò che andrà in scena nei prossimi mesi, è un esempio di tessitura intima capace di incrociare la sensibilità umana di Ersilia Vaudo Scarpetta, Stefano Boeri, Massimo Bottura, Gianni Dessì, Mario Martone, Fabio Novembre, Mimmo Paladino, tutti protagonisti della cultura contemporanea internazionale, e la fragilità delle comunità carcerarie di Reggio Calabria, Canton Mombello (Brescia), Palermo, Regina Coeli (Roma), Venezia, Lecce e Secondigliano (Napoli). Con l’obiettivo comune di spacchettare il concetto di soglia per educare con la forza dell’immaginazione alla cura del prossimo. E nutrire la speranza.

“Speranza come dichiarazione di intenti”, dice De Lucchi, “come trasformazione accessibile che restituisce a ogni passaggio la possibilità di aprire uno spazio di consapevolezza, attesa e rinascita”. Pura e solida, la sua, priva di telaio e di muro, è una porta scissa: non separa, non conduce, semplicemente è. “Segna un luogo sospeso, aperto al possibile”, continua. “Sfaccettata e mossa, in superficie, è già di per sè un invito all’incontro, a toccare con mano una materia viva”, il legno, “che arriva dalla vita e torna alla vita”.

Insieme a metallo e pietra, a disposizione degli ambasciatori della speranza, i materiali impiegati sono autentici e preziosi, chiedono attenzione in ogni fase di lavorazione. “Li abbiamo scelti perché capaci di resistere nel tempo, di farsi monito di un’urgenza purtroppo ancora attuale”, puntualizza il cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. Raggiunto al termine della conferenza per un confronto sul progetto ci spiega: “Dichiarando tutta l’intenzione di restare, oltre il semplice episodio, si fanno naturalmente simbolo di sacrificio, rigenerazione e fede”. Fine intellettuale, tra i volti più amati della Chiesa cattolica, Sua Eminenza crede nell’educazione e nella cultura come strumenti di umanizzazione, speranza e apertura al mondo. “Speranza che non è mai ornamento”, ammonisce, “ma possibilità che deve potersi rinnovare proprio nei luoghi dove è più fragile. Solo coltivando un solido senso di responsabilità condivisa possiamo aiutare le persone in carcere a non perderla”.

Che in Italia, la situazione in questi luoghi di confino sia difficile, lo dicono i numeri: sono 74 i suicidi dichiarati a dicembre di quest’anno, causati delle condizioni di detenzione, ormai invivibili. Senza entrare nel merito dei programmi ricreativi, culturali e riabilitativi che pur potendo favorire un reale percorso di reinserimento nella società, non vengono attivati secondo necessità, a oggi si contano 62.700 detenuti per circa 46.700 posti disponibili, con un tasso di sovraffollamento superiore al 130% a livello nazionale.
Uno spaccato di cruda realtà che già indusse Papa Francesco a motivare quest’anno giubilare attorno all’esperienza e al bisogno di speranza. Come affermato nella Bolla di Indizione Spes non confundit: la speranza ha il compito di illuminare i luoghi di detenzione. Un impegno rinnovato di recente nelle parole sia di Papa Leone XIV sia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che proprio in occasione di una sua visita alla casa circondariale di Rebibbia a Roma ha sottolineato l’inaccettabilità delle condizioni detentive. Ribadendo ancora una volta che il sistema carcerario “deve garantire ai detenuti prospettive di crescita, recupero e rinascita, non solo la custodia”.

Eppure, nell’immaginario degli ospiti di San Vittore, come riferito da Michele De Lucchi in conferenza stampa, basterebbero un sapone, una spazzola e un getto d’acqua per ‘uscirne puliti’: l’idea di un autolavaggio come porta della speranza ha fatto sorridere molti. Ma di un riso amaro.
Perché riporta al senso di questo progetto e alla necessità di un impegno condiviso: “Oggi quello che accade ‘dentro’ le carceri è un tema quasi invisibile”, riprende il cardinale José Tolentino de Mendonça. “Pensiamo sia un problema degli altri. Invece no, è un problema anche nostro, di chi sta fuori. Siamo noi come comunità a dovercene occupare, a mantenere viva l’attenzione nutrendo umanità e sensibilità sociale. Solo così possiamo aprire la porta: prendendoci cura della via d’uscita. Consentendo a chi è in viaggio una possibilità di riscatto, di rigenerazione, di re–integrazione. Perché la vita non può essere solo un passato doloroso e tragico, piuttosto un presente felice e un futuro ricco di nuove opportunità”. La porta come spirito guida, per chi è al di qua e al di là delle mura, uniti entrambi nell’impegno di una comune speranza. Parole belle, ma nei fatti come si concretizzano?
“Investendo in creatività. Il progetto è uno strumento di educazione potente: ha la capacità di toccare le sensibilità, di parlare non solo alla mente ma anche al cuore. L‘arte contemporanea, per esempio”, come anche l’architettura, “sa avvicinare gli ambienti umani più fragili con grande semplicità. Quando esce dai white cube, dai circuiti più tradizionali”, sottolinea Tolentino de Mendonça, “innesca sfide umane dall’esito imperdibile, sia per gli artisti sia per il pubblico”.

Forse anche per via del campo di azione nel quale l’opera insiste, non solo come forma ma soprattutto come contenuto. Il messaggio di speranza, quando, soprattutto di questi tempi, soprattutto in Italia, si discute di pena detentiva e carceri, non può che intercettare quello di giustizia. “Che per noi è sempre generativa. Solo quando è attenta alle singole dimensioni esistenziali la giustizia è fertile e riparativa”, ricorda il cardinale, “perché dotata di una razionalità edi un’intelligenza affettiva capace di ricostruire il sottobosco della società. Una società che usa la giustizia per negare vita e speranza, è una società che non realizza i suoi doveri fondamentali. Mentre noi, come umanità, siamo ipotecati alla speranza”.
Sarà banale scriverlo, ma se solo fosse così semplice mettere in pratica le parole del caerdinale, il mondo sarebbe migliore. “La situazione non è facile e tutti siamo consapevoli della complessità nella quale viviamo. Quello di cui dobbiamo convincerci, è che se sollecitiamo la sensibilità sociale, la educhiamo in maniera costruttiva, positiva, e moltiplichiamo i progetti culturali possiamo agire concretamente sulla realtà. Se pensiamo che una parte significativa della popolazione carceraria è scarsamente scolarizzata, non è difficile comprendere quanto la povertà incida sulle scelte di vita delle persone. E senza cedere a facili giustificazioni, dobbiamo anche convincerci che educazione e cultura sono strumenti necessari affinché ciascuno di noi non resti sequestrato dal passato”, chiude il cardinale José Tolentino de Mendonça. “Mai dimenticarsi che la vita è un processo aperto”. Proprio come un’opera d’arte.
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