Superficiale e allegorico all’apparenza, profondo nell’essenza. Avevamo già apprezzato il visual artist Willem de Haan nel 2024 in occasione di Concéntrico, il Festival internacional de Arquitectura y Disegno de Logroño, nel nord della Spagna, dove aveva presentato l’installazione Public Monument, l’umile casetta da affittare (per finta), che aveva preso il posto del basamento del monumento equestre del general Espartero al centro di una delle piazze principali della città.
Studi di belle arti, critica sociale praticata in modo sottile, gestione architettonico-scenografica dello spazio e una buona dose di paradosso sono all’ordine del giorno per l’artista olandese, che definisce il suo lavoro decisamente assurdo, ipocrita, un segno del tempo.
A ottobre De Haan ha ritirato a Eindhoven uno dei tre Dutch Design Awards (DDA), i premi ufficiali della Dutch Design Week, come talento emergente per il suo contributo al design, riconoscimento a un percorso artistico metaforico e surreale.
In quasi tutti i suoi lavori, De Haan ama distorcere la realtà per metterla in discussione, scardinare il dato per scostato; ipotizzare realtà alternative attraverso i suoi interventi di cambiamento dei luoghi quotidiani e dei luoghi comuni. Come accaduto in modo spiazzante e teatrale coi monumenti cittadini ma anche con la casetta sommersa a motore, simbolo dell’adattamento a un mondo in continuo cambiamento climatico; o, altro esempio sofisticato, con l’elegante set di valigie-casse prodotte per soddisfare il limite alle dimensioni massime del bagaglio consentite da British Airways.
Il tuo lavoro ha spesso a che fare con lo spazio fisico, pubblico o privato. Ci spieghi in dettaglio come ti relazioni con esso?
Guardo allo spazio come se fosse un palco, con gli occhi dello spettatore, cercando di capire cosa aggiunge allo scenario. Ho studiato arti performative come parte del mio percorso di belle arti, mi interessa il movimento. Come a Logroño: è stata la prima volta che ho avuto a che fare con un monumento intervenendo su di esso, interfacciandomi con un governo e una cultura che non fossero i miei. Sono stato a lungo nella città parlando molto con i suoi abitanti, valutandone usi e abitudini.

Come decidi cosa manca quando intervieni?
Molto spesso nella scenografia sono gli oggetti, i dettagli meno importanti, a raccontare la storia.
C’è anche il tema dell’impossibile, come rivisitare un monumento anacronistico e il luogo che occupa.
Esatto, è quello che mi domando e che ho affrontato anche l’estate scorsa col monumento nel centro di Nantes dal quale ho tolto le statue; o nel prossimo intervento ad Arnhem, città in cui ho studiato, dove avrò a che fare ancora una volta con un monumento cittadino interfacciandomi con la sua storia. Modificarlo mette in discussione l’idea intrinseca di permanenza che rappresenta. Del resto, viviamo in un mondo mobile e facciamo parte del suo movimento, del suo mutare attraverso le generazioni.
Questo prevede anche una critica sottile alla società moderna, come suggeriscono i tuoi lavori Trash Totem o This Space Could Be Yours.
Chi vede può giudicare e interpretare. Tocco dei temi che inevitabilmente creano dibattito. Ho appena presentato un progetto per la baia di Anversa in Belgio, trattando il paragone tra la sua scala gigante e invasiva della città in rapporto alla dimensione umana. Si tratta di un container caricato in bilico su una bici: sicuramente si può leggere la critica al sistema ma io volevo soprattutto evidenziarne l’assurdità, la contraddizione e l’ipocrisia. Pur essendo un idealista, non voglio rappresentare il mondo perfetto ma quello che ci circonda e in cui viviamo realmente.

E lo fai in modo immediato e accessibile a tutti.
Spero favorisca la comprensione di quel che viviamo catturando e traducendo il sentimento locale. Vorrei creare e far vivere l’esperienza invece che farla assistere solamente da spettatori. Per questo prediligo i luoghi pubblici piuttosto che esporre nelle gallerie.
Trovo delle affinità tra il tuo lavoro e quello del duo di artisti Elmgreen & Dragset, con quali differenze?
Direi che nel loro caso il modo in cui presentano i lavori sia molto soggettivo, mentre i miei progetti non riguardano me direttamente ma hanno a che fare maggiormente con la storia di altre persone. Mi piace considerarmi più come uno straniero nel contesto, che ne capta importanze e stranezze, lavorare molto sul locale per esprimere concetti globali.

Con sottile sarcasmo come nel tuo set di valigie ricavate da delle casse di legno…
Spesso concetti in antitesi come finzione e realtà collimano in un progetto. Mi capita e cerco di esprimerli contemporaneamente alzando il volume al massimo.
Una sorta di nuova realtà alterata…
Mi considero un outsider della scena del design. Anche quando ho ricevuto il premio, inaspettato, a Eindhoven. Un artista non sempre ha la percezione di cosa pensi chi osserva le sue opere, cosa che ho discusso con mia madre che fa la cantante (Charlotte Glorie, ndr), la quale ha invece nella reazione del pubblico il riscontro immediato. Il lavoro del visual artist è più isolato e distaccato. Il premio a Eindhoven è stato quindi una conferma e un riconoscimento dell’impatto del mio lavoro, molto motivante.

L’articolo Willem De Haan: «Non voglio rappresentare un mondo perfetto» sembra essere il primo su Living.
