«Multinaturalista: ecco il design che può salvare il mondo»

Foto Margherita Amadio

Antropologo, docente e anima errante, da diversi anni Andrea Staid indaga le intersezioni tra cultura, natura e progettazione. Lo fa attraverso una prospettiva profondamente critica rispetto al sistema turbocapitalista che ha depauperato risorse ambientali e umane, ma anche attraverso un approccio ottimista al design, inteso come strumento potenzialmente trasformativo.

Nel suo nuovo libro Dare forme al mondo. Per un design multinaturalista (UTET), presentato anche ai Dialoghi di Pistoia, propone una visione radicale del design come pratica antropologica e politica, capace di riparare – almeno in parte – i danni dell’Antropocene. Un design multinaturalista, per l’appunto, dove l’animale umano non è né il solo progettante né il solo utente, e dove la progettazione diventa un atto ricostituente e inclusivo che nasce, si plasma e respira insieme a tutti gli esseri viventi.

Andrea Staid design multinaturalista

Frutto di dieci anni di ricerche sul campo e riflessioni teoriche, il volume è il terzo capitolo di una trilogia dedicata alle commistioni tra antropologia e design, in un viaggio che attraversa saperi indigeni, pratiche artigianali, design animale e cultura materiale, fino a formulare un manifesto per una progettazione consapevole, multispecie, rigenerativa.

Un invito a ripensare radicalmente il nostro modo di progettare, a sovvertire le convinzioni tradizionali legate al design; ad abbandonare l’iperconsumismo per abbracciare una visione realmente ecologica della vita.

Intervista ad Andrea Staid

Partiamo dal libro Dare forme al mondo: come si inserisce nel tuo percorso?

In un certo senso rappresenta la conclusione di una trilogia iniziata con La casa vivente, proseguita con Essere natura, e che ora trova compimento con Dare forme al mondo. Sono dieci anni di ricerca, sia sul campo – attraverso viaggi e incontri con altre culture – sia bibliografica. Questo libro vuole anche essere un ritorno, un modo per raccontare le pratiche virtuose che esistono anche vicino a noi, che propongono un’idea di progettazione capace di riparare i danni inflitti all’ecosistema da secoli di ipersviluppo.

Cos’è il design multinaturalista?

Nel contesto della mia ricerca antropologica ed etnografica, mi sono reso conto che c’è un modo possibile di dare forme al mondo che, citando l’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, può essere definito “multinaturalista”. Multinaturalismo significa ripensare la relazione con il vivente, non più in maniera gerarchica – con l’umano al centro – ma secondo una prospettiva multispecie.

Perché c’è bisogno di uno sguardo antropologico nel campo del design?

Fortunatamente non sono il primo a dirlo: già negli anni Sessanta Victor Papanek sosteneva che un design senza antropologia non ha senso. Se pensiamo che il design nasce con la rivoluzione industriale, stiamo dimenticando che gli esseri umani progettano da sempre: quando si forgia un martello per scolpire una pietra, quello è già design. L’antropologia ci aiuta a comprendere per chi, per cosa e come progettare. Aiuta a capire che tipo di relazione instaurerà un oggetto all’interno di una rete di significati, anche con altre specie. Ettore Sottsass, per esempio, è stato estremamente radicale nel proporre un approccio antropologico al progetto.

Victor Papanek, Ettore Sottsass e Ugo La Pietra sono alcuni dei protagonisti di un capitolo dedicato ai ribelli del design. Perché è oggi più che mai necessaria una ribellione nel design?

Perché credo che i designer abbiano un ruolo molto più centrale all’interno della società di ciò che pensano. Io li paragono a dei demiurghi: insieme agli architetti, possono davvero cambiare il mondo. Il design è un’azione politica, non in senso partitico, ma nel senso che costruisce la società. Se diamo forma al mondo in un certo modo, possiamo salvarci o meno. La sesta estinzione di massa è già iniziata, e il modo in cui progettiamo può almeno rallentare il disastro. Il tempo stringe. Il design deve diventare consapevole, perché ha un impatto enorme. Serge Latouche, le cui teorie sulla decrescita mi hanno ispirato molto, ha chiarito la complessità del tema della produzione. È fondamentale interrogarsi su cosa produciamo, come lo facciamo e su quanto costa alla Terra ogni nostra azione.

Nel tuo libro parli anche di design animale. Come si può scardinare l’idea che il design sia una prerogativa esclusivamente umana?

Esiste una vasta letteratura scientifica sull’architettura e il design nel mondo animale. Ho cercato di renderla accessibile, facendo esempi concreti. Moltissimi animali progettano: le termiti, i castori, gli uccelli. Alcuni producono strumenti per costruire, o addirittura dipingono usando bacche e pennelli di corteccia. Anche il mondo vegetale ci insegna molto, nella stratificazione delle foreste, nella comunicazione tra funghi e radici. Da sempre abbiamo copiato la natura per progettare: basti pensare a quanto sono stati di ispirazione, in alcune culture, i nidi delle vespe.

Parli anche di autocostruzione. Perché è così importante oggi?

Perché delegare tutto ci ha portato a questa situazione devastante. L’intelligenza manuale è complementare a quella cerebrale. L’artigianalità è una forma di conoscenza. L’autocostruzione, il costruire insieme, è anche una via per recuperare la sacralità dei luoghi: non intesa come religiosità, ma come rispetto, come senso del collettivo, come spazio condiviso.

«Multinaturalista: ecco il design che può salvare il mondo»
Foto Gabriele Trapani

Quali caratteristiche dovrebbe avere un design “ricostituente”?

Nel libro ho formulato una sorta di manifesto del design multinaturalista, con otto punti fondamentali. I principali sono: ripensare i modelli di produzione e consumo; abbracciare uno sviluppo frugale e sostenibile; fermarsi prima di desiderare; dialogare con i materiali, ascoltando ciò che la materia suggerisce; progettare pensando a sette generazioni future; e poi contemplare la dismissione fin dall’inizio, pensando al riuso degli oggetti e al riciclo virtuoso. Solo così il design può diventare etico, sociale, consapevole e responsabile. Non parlo di utopie, ma di percorsi possibili per riparare un mondo che abbiamo danneggiato.

Come rispondere a chi dice che tutto questo non è realistico su larga scala?

Non è facile, ma le cose si stanno muovendo. All’Università di Firenze, per esempio, il polo di design ha già impostato il proprio asse su questi temi. Ovunque si sta capendo che la produzione rigenerativa è quella che può sopravvivere alla crisi. In generale, siamo messi così male che o cambiamo o non sopravvivremo. I rifiuti non esistevano fino a due secoli fa. Adesso invece viviamo nell’ecocidio. E l’ecocidio è interclassista: lo pagano anche i figli dei ricchi. Non c’è tempo per cinismo o scetticismo: bisogna agire adesso.

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